LA BALLERINA DEL GAI-MOULIN

Tempo d'estate. E non c'è niente di meglio che restare sotto l'ombrellone a leggere un libro. Soprattutto se questo è un giallo che tiene incollati alla sdraio. Ecco perché La ballerina del Gai-Moulin (Adelphi) - ma sarebbe potuto altresì essere Il porto delle nebbie, oppure Maigret e l'uomo della panchina perché ogni “inchiesta di Maigret” è avvincente, meglio, ogni Simenon è un piacere a leggersi. Lo scrittore belga - che aveva l'abitudine di chiudersi in una stanza per una settimana uscendone poi con un romanzo bell'e pronto - è stato uno dei più prolifici scrittori del secolo appena trascorso, diventando autore di numerosi romanzi e racconti, siano questi denominati gialli, noir, romanzi popolari, d'appendice o psicologici. Dongiovanni dall'inguaribile passione per le pipe, la popolarità di Simenon è dovuta soprattutto al suo personaggio più celebre, il commissario Maigret, che si dimena per settantacinque romanzi e ventotto racconti alla ricerca della verità. La domanda che il commissario (simile a Simenon?) si pone nelle sue avventure è: “Perché è stato commesso l'assassinio? Cosa ha portato il personaggio al gesto estremo?” I personaggi descritti sono persone semplici, piccoli uomini appartenenti alla media borghesia che si ritrovano in situazioni drammatiche che il destino impone loro, e queste ombre che si aggirano per le pagine spesso sono tratte dalla vita di Georges Simenon, a riprenderne balzachianamente la “commedia umana”.
Con una scrittura semplice e diretta derivata dalle sue giovanili esperienze giornalistiche, un linguaggio amato da François Mauriac e André Gide, Simenon ci svela davanti agli occhi la città quale naturale scenario dell'uomo moderno, sia essa la natale Liegi o l'adottiva Parigi: la pioggia, i caffè, i locali notturni, gli alberghi e le strade vengono tratteggiati brevemente per far rivivere al lettore l'atmosfera e il sentimento che percorre lungo tutta la trama dell'opera.
L'indagine perde la naturale caratteristica poliziesca per divenire ricerca psicologica nell'intento di sondare alcuni movimenti dell'esistenza; il dramma da ricercare non resta circoscritto all'atto estremo, ma diviene semplicemente l'acme di un discendere dell'uomo verso il baratro, lì dove deboli uomini si lasciano trasportare spinti dalle passioni come piccoli Raskol'nikov. Ed è per questo immergersi nel dedalo delle pulsioni umane che i romanzi dello scrittore belga superano la normale etichetta di “giallo”. Al pari di altri scrittori - quali Camilleri o il “pasticciaccio gaddiano” -, Simenon assume l'intricata struttura del romanzo poliziesco, teso a rimettere assieme i pezzi di una realtà che si offre in frammenti, per metaforizzare l'esperienza del conoscibile. Così in questo La ballerina del Gai-Moulin, siamo trasportati nelle relazioni che intercorrono tra il giovane Jean Chabot, madido e livido per i sensi di colpa che la sua coscienza non sa sostenere; l'amico René Delfosse, viziato bamboccio teso alla ricerca di piacere; e la baudelairiana Adèle, ballerina dal corpo burroso. Nel locale notturno Gai-Moulin, tra personaggi misteriosi, greci e spie internazionali, avranno origine e si dipaneranno le relazioni in un'imprevedibile finale.

VIRGINIANA MILLER – IL PRIMO LUNEDÌ DEL MONDO

“Suona la radio e mi sveglia la bella canzone / cerco qualcosa da fare se doveva piovere e invece c’è il sole / comincia così oggi è il primo lunedì del mondo / e ho chiuso la porta alle spalle e ora scendo giù”: se il loro album precedente, Fuochi fatui d’artificio, si chiudeva con la canzone Insonnia, oggi i Virginiana Miller si risvegliano pronti a un nuovo inizio, nel Primo lunedì del mondo.
Questo quinto album del gruppo livornese suona meno cupo e più ottimista – senza però perdere quei tratti di amara ironia che da sempre lo caratterizzano. Anche se è inevitabile l’accostamento con i più famosi Baustelle (di cui sono amici da tempi non sospetti), i Virginiana conservano un’identità forte e una costanza ammirevole nel proseguire un percorso autonomo e indipendente dalle logiche di mercato, che prosegue ormai da vent’anni. Il loro raffinato pop rock ha smussato le spigolosità dei lavori precedenti, concentrandosi su notevoli arrangiamenti di archi e fiati, e allo stesso tempo mantenendo un certo gusto per gli intrecci chitarristici e le ritmiche sghembe a sostegno del cantato di Simone Lenzi, dimesso ma espressivo come pochi.
Meno cupo e più ottimista, si diceva, e anche più intimista: come ha dichiarato Lenzi in alcune interviste, l’album è frutto, tra le altre cose, di una depressione, di una crisi che ha coinvolto anche il fare musica in quanto parte della propria vita. In questo senso è significativa la canzone La carezza del papa, dove il clarinetto basso (ndr) sorregge il mesto confronto tra un genitore e un figlio: “ora cerco una scusa non ho avuto i coglioni / non ho avuto né figli né gloria o potere soltanto canzoni / che non canta nessuno che non cambiano niente / che non legano il sangue”. Questa disincantata confessione si trasforma poi nella denuncia di un’educazione troppo fredda, prendendo in prestito la famosa frase di Giovanni XXIII: “tornando a casa stasera troverete i bambini / dategli quella carezza del papa / ma anche un calcio nel culo va bene / anche quello ogni tanto fa bene / come segno di amore sicuro / di contatto e calore animale senza tante parole”.
Già, le parole. Un concetto che ricorre più volte nelle canzoni: c’è urgenza di “parole nuove” con cui dire le cose, per parlare non solo di Storia ma anche di storia, di vita quotidiana, di relazioni. Per parlare, ad esempio, del bisogno di essere a tutti i costi considerati, sintomatico di un disagio molto moderno: è il caso di L’angelo necessario (che compare nella colonna sonora dell’ultimo film di Paolo Virzì, loro concittadino), quella persona a cui non importa il male che subisce, perché è l’unico modo che ha di avere un rapporto, di essere calcolata (“puoi farmi piangere tanto dimentico”). È anche il caso di L’inferno sono gli altri, titolo che cita Sartre per parlare dei social network: “e ognuno è nel suo spazio ognuno ha qualcosa da dire / che un po’ ti sto a sentire”, e ancora “hai 2500 amici ma nessuno è lì con te per prendere un caffè”. Anche essere amati diventa un bisogno come l’aria, o come il caffè, nella malinconica La risposta; ma questo amore può trasformarsi in una mania inquietante per un qualsiasi Oggetto piccolo (a), uno dei pezzi migliori dell’album, che parte in sordina, quasi sussurrato, per poi trasformarsi in un emozionante crescendo. Per sentire un po’ di chitarre graffianti c’è Il presidente, dove si gioca con una frase di Dylan Thomas, e anche il singolo Acque sicure ha un bel tiro rock-wave. Ma come già accennato, sono gli arrangiamenti a fare la parte del leone in questo album, con viole, violini e fiati molto spesso in primo piano a sostenere le canzoni, come nel pezzo in inglese Frequent flyer che apre il disco, e come nella cover dei Rokes È la pioggia che va (sì, proprio quella) a cui invece è affidata la chiusura.
Questo album lascia dunque intravedere una piccola speranza, “quelle macchie di azzurro e di blu”: il lunedì non è più il giorno odioso del ritorno al lavoro, ma il giorno positivo che segna un cambiamento, nonostante il permanere di brutture e tristezze. Ed è anche questo a rendere Il primo lunedì del mondo un lavoro prezioso, che conferma ancora una volta lo spessore artistico dei Virginiana Miller.

TRIBUTO A SARAMAGO

Aveva ottantasette anni ed era ancora nel pieno della sua carriera letteraria. Josè Saramago, premio nobel per la letteratura nel 1998 era affetto da tempo da una grave forma di leucemia, la quale il diciotto giugno l'ha costretto alla morte sull’isola di Lanzarote. Lo scrittore portoghese si era trasferito sull’isola delle Canarie per un esilio volontario dopo l’uscita del Vangelo secondo Gesù, che scatenò non poche polemiche nel proprio paese, ma soprattutto in tutto il mondo cattolico che lo accusò di eresia. Nel romanzo Saramago si cimenta e propone una personale visione del Nuovo Testamento. Una peculiarità che contraddistingue lo scrittore e non manca in nessuno dei suoi scritti è l’inconfondibile cifra stilistica, che riguarda l’uso dei suoi dialoghi, inseriti nel continuum della narrazione senza virgolette né altro segno di stacco a introdurli, come un flusso, un tutt’uno con il resto dell’intreccio. Questo tipo di scrittura nasce, infatti, dall’esigenza di mescolare un insieme di voci disperate e oppresse, frutto di interviste fatte da Saramago ad alcuni contadini, protagonisti del suo libro Una terra chiamata Alentejo. La voce narrante e quella dei personaggi si fondono nel corpo della trama.
Il tema prediletto dallo scrittore, e presente nella maggior parte dei suoi lavori, mira a descrivere la condizione umana in forma allegorica. Impossibile non nominare Cecità, in cui lo scrittore si immagina una popolazione privata dall’uso della vista, che si ritrova nel panico totale ad affrontare la crisi della ragione. Gradualmente i personaggi che popolano questa sarabanda devono fare i conti con le moralità che costituiscono la società contemporanea e che vengono sempre più a mancare. Costringendo l’uomo a una sorta di primordialità.
La questione tanto cara a Saramago continua in altri suoi romanzi famosi come Tutti i nomi, La caverna e Le intermittenze della morte. In quest’ultima fiaba l’autore si domanda cosa succederebbe a una società retta da convinzioni ben salde, se la morte cessasse l’attività. Egli scardina queste convinzioni evidenziando le reazioni e i comportamenti dei personaggi sottoposti all’impotenza degli eventi.
Caino (Feltrinelli) è il suo ultimo sforzo letterario, già in testa alle classifiche italiane: Saramago torna ad occuparsi di religione cimentandosi questa volta con l’Antico Testamento. L’opera vede come protagonista Caino figlio di Adamo ed Eva. Esso si macchia del primo delitto della storia dell’umanità uccidendo il proprio fratello. Per questo nefasto crimine, sarà da Dio punito e condannato a una vita errabonda in groppa al suo mulo, ritrovandosi a viaggiare attraverso lo spazio e il tempo sia come semplice spettatore sia come protagonista dei più salienti episodi biblici: dalla cacciata dall’eden al diluvio universale a bordo dell’arca di Noè.
Altra particolarità dell’autore ma che non è presente in tutte le sue opere è quella di sviluppare temi altrimenti pesanti o ostici mescolandoli ad altri puramente fantastici; chiamando spesso in causa anche il lettore. Saramago porta sulla scena il paradigma del male e lo confronta con un Dio che, a sua volta, si rivela malvagio e capriccioso nei confronti delle proprie creature. In una frase diventata celebre del romanzo, il narratore si esprime così a proposito del rapporto tra dio e i suoi fedeli: “la storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con Dio, ne lui capisce noi, né noi capiamo lui”. Ognuno dei viaggi affrontati da Caino sottolinea la crudeltà di un Dio che, invece di farsi amare dalle sue “creature”, sceglie di sottoporle incessantemente a dure prove di fedeltà. Con Caino, Saramago si inventa un'alternativa visione della Bibbia e conferma anche in questa sua ultima fatica la propria peculiare vena stilistica, retaggio d’una vita dedita allo studio della condizione umana.


Alessandro Buzzi

HARTERA MUSIC FESTIVAL 2010 10.-12.06.

Giunto alla quinta edizione, l’Hartera Music Festival di Fiume (Rijeka), Croazia, quest’anno ha voluto fare le cose in grande: tre giorni di musica, da giovedì a sabato, tanti artisti nazionali e internazionali, tra i quali nomi di spicco della scena elettronica e rock.
Nato con l’intento di portare all’attenzione pubblica l’idea che uno spazio in disuso e costituito da vecchi edifici facenti parte dell’ex fabbrica della carta potesse essere riadattato e riutilizzato per fini culturali, musicali e artistici, ora il festival è diventato uno degli eventi musicali più importanti della Croazia. Il festival non è solo musica, ma anche allestimenti, decorazioni e una serie di attività sussidiarie agli eventi musicali, in modo tale da poter intrattenere al meglio gli ospiti; oggi l’Hartera è un festival di tre giorni, con quattro stage, e più di 50 artisti inseriti in una cornice unica, l’ex complesso della fabbrica della carta: hangar, casermoni, gallerie, stradine, palazzine in disuso, situate sulla riva del fiume Fiumera (Riječina) e ai piedi del colle di Trsatto (Trsat) che danno l’impressione di staccarsi dal contesto urbano e formare una parte a se stante.
La serata inaugurale del festival è soltanto un assaggio dell’evento vero e proprio: l’ospite principale è la Young Brass Band, gruppo jazz sperimentale americano che viene inserita in un contesto che prevede esibizioni di artisti e performers locali ed internazionali.
Il giorno seguente propone già numerosi ospiti, che si dividono sui quattro stage previsti dal festival e all’insegna della musica elettronica, i nomi sono tanti e sono anche di tutto rispetto: gli Atari Teenage Riot, gruppo di musica hardcore elettronica offlimits contraddistinta dalla presenza scenica esplosiva dei tre membri del gruppo; non è da meno la cantante degli Sleigh Bells, gruppo electro made in USA, tra arrampicate sulle strutture del palco e tuffi tra la folla. Il proseguire del festival è un continuo crescendo, solo per ricordarne alcuni: il dj inglese Duke Dumont, i Fuck Bottons, 100Names, i bosniaci Dubioza Kolektiv, Symbolone e per chiudere l’acclamatissimo Erol Alkan, maestro indiscusso della scena elettronica mondiale.
Il successo delle prime due serate, ha creato delle aspettative molto elevate per la serata conclusiva ed i nomi in programma non erano sicuramente da meno. In questo caso la scelta degli artisti e la loro ripartizione tra gli stage, combinava musica rock ed electro a seconda del gusto dello spettatore. Numerosi i gruppi locali, tra i quali, Father, The Orange Strips, My Buddy Moose e Aviljaneri; la programmazione prosegue con nomi di prima scelta: imperdibile il ritorno di Garcia plays Kyuss, storico leader del gruppo stoner americano, il quale ha riproposto i successi storici della band e ha attirato numerosi fans da tutta la Croazia.
Il tempo per prendersi una pausa non era previsto… in un altro stage iniziavano i Klaxons; il gruppo new rave inglese, dopo il successo del loro primo album Myths of the near future, si presentava al festival carico di aspettative; sono loro infatti l’ospite principale e l’affluenza del pubblico alla loro esibizione ne è la prova lampante. Un’ora di tempo per proporre i successi del loro primo album tra i quali anche le più famose Golden Skans e It’s not over yet, oltre ad alcuni nuovi singoli di prossima uscita. Loro mettono la musica, il pubblico e la cornice del festival fanno il resto.
Tutt’altra cosa è l’esibizione del gruppo surf rock croato Bambi Molesters caratterizzata da ritmi dove la chitarra domina con delle sonorità calde e coinvolgenti che riportano ad atmosfere degli anni sessanta, anche questo è Hartera. Intanto, nel main stage il gran finale all’insegna della musica elettronica era già cominciato. Dalla Germania arrivano i Moderat ed i Digitalism, due modi diversi di interpretare la musica: i primi hanno proposto ritmi lenti, profondi e cadenzati, mentre i secondi hanno chiuso il festival con la loro musica energica, a tratti minimale e caratterizzata da stacchi con ripartenze cariche di energia e coinvolgere il pubblico fino all’ultimo istante.
Il connubio tra musica, arte e intrattenimento ha portato alla realizzazione di un evento in grado di attirare, anno dopo anno, un pubblico sempre maggiore ed artisti sempre più importanti. La speranza è che il festival possa continuare a crescere nei prossimi anni e vedere sempre più strutture abbandonate a se stesse riutilizzate in maniera permanente per iniziative di questo genere: un messaggio alla città ed un esempio da prendere in considerazione.


LA RIVINCITA DEL FLAMENCO

Tristezza, allegria, musica, tradizione e un bisogno estremo di liberare il corpo dalle oppressioni razziali e storico-culturali: questi gli elementi principali che la storia del Flamenco spagnolo trasmette a noi spettatori.
Ma come nasce questo ballo? È veramente una danza tipicamente spagnola?
Da sempre si sente parlare di flamenco quando si nomina la Spagna, patria del calore umano, del ballo e del contatto corporale. Al giorno d’oggi in ogni regione spagnola sono presenti scuole di ballo specializzate nel Flamenco e nella conoscenza della filosofia di questo “rito gitano”, che nasce come ricerca di una via di fuga alla frustrazione della vita quotidiana.
Ma dove e come si sviluppa? La patria è l’Andalusia, la regione più meridionale della Spagna, che si affaccia sul Mar Mediterraneo e sull’Atlantico: grazie alla sua posizione geografica, questa regione è sempre stata il fulcro di importanti flussi migratori. Tra questi, il più importante è sicuramente il popolo arabo, presente in Spagna per ottocento anni, che ha lasciato tracce significanti nella cultura, nell’architettura e nella lingua castigliana. C’è da dire però, che non solo gli arabi hanno rivoluzionato la storia della Spagna, anzi, a livello culturale e artistico un popolo fortemente criticato ancora oggi, ha importato il ballo più famoso, sensuale e filosofico conosciuto in tutto il mondo: i Gitani.
Un popolo di ballerini e musicisti, proveniente dalla Grecia, cacciato via da mezzo mondo, stabilitosi pacificamente in Catalogna nel 1400, per popolare poi la maggior parte dell’Andalusia: considerati clandestini, venne loro proibito qualunque tipo di commercio e di lavoro, tanto che, per scappare alla repressione quotidiana, divennero i migliori rappresentanti e interpreti del folklore locale. In fretta appresero tutti i balli andalusi e africani dei ceti meno abbienti presenti nel territorio, mettendo sempre in ogni danza il massimo di passione, pathos ed energia.Il popolo gitano stava al margine della società, sia a livello economico che culturale, e racchiudeva in sé le tipiche caratteristiche della gente “povera”, uno spiccato senso religioso, l’amore per la comunità, il ballo, il vino, la musica e una sensualità fortemente accentuata, che spesso confondeva il sacro e il profano.
Il Flamenco nasce come poesia e musica di un popolo sofferente per un’emarginazione forzata, dove il sentimento di solidarietà caratterizzava le giornate delle singole persone. E come ben si sa, la povertà rende solidali. Questa peculiarità, infatti, si può ritrovare nei versi scritti gitani, dove le tematiche principali erano la durezza del lavoro, la difficoltà della vita, l’avversione del destino, il sentimento e la morte. Al principio quindi il Flamenco era un fenomeno artistico semi clandestino, con le caratteristiche di un pianto solitario, familiare e privato.
Con l’avvento di Carlo III, promotore di innovazioni agricole, economiche e amante delle diverse culture e tradizioni, i gitani ottennero libertà d’espressione dei loro versi. Fu in questo modo che il Flamenco diventò un ballo aperto al mondo, una danza individuale, dove quello che conta è la fusione completa di corpo e anima, di dolore, frustrazione, gioia e allegria, espressa attraverso i gesti del corpo. Non c’era distinzione tra uomo e donna, chiunque poteva ballare, ognuno poteva esprimere e sfogare la propria interiorità come meglio sceglieva, grazie al suono di una chitarra e a un gruppo di persone in cerchio, come pubblico osservatore delle emozioni altrui.
In pochissimo tempo la “danza dell’intimo” raggiunse un grande successo tra i popoli andalusi, al punto tale da elevarla a tradizione puramente spagnola. Ancora oggi la Spagna lo considera parte della sua tradizione, soprattutto l’Andalusia, dove ogni anno viene dedicata una festa di tre giorni solo al Flamenco, la “ Feria de Abril” di Siviglia, in cui tutte le donne e le ragazze del luogo indossano il tipico vestito del flamenco, con un ventaglio e un fiore rosso nei capelli. Vengono accompagnate su una carrozza da uomini vestiti da cavalieri gitani e anche i cavalli sono adornati coi fiori tipici gitani, tutto accompagnato dall’immancabile chitarra spagnola che avvicina la comunità andalusa in un rito storico-culturale, in memoria di un popolo, che grazie all’amore per la poesia e la musica, il sentimento e la solidarietà, è riuscito a ottenere il rispetto, la stima e la diffusione delle proprie origini da parte di tutto lo stato spagnolo.

POLAROID, NON FINISCE QUI

Prima o poi sarebbe successo. Inevitabile declino della pellicola. L'uomo degli anni '00 preferisce il digitale, aborre tutto ciò che conduce all'errore, all'imperfezione, alla non calcolabilità e alla previsione asintoticamente esatta del futuro. L'uomo contemporaneo si trova a suo agio in una società gelatinosa, in cui ogni suo movimento è prevedibilmente coinvolto, in cui spazio e tempo preferisce ridurli a frammentazioni non interessanti o comunque ininfluenti.
Non sorprende l'oblio del mezzo fotografico così come nacque, nera scatola imbarazzante e ingombrante. Nel corso del tempo la riduzione a più dimensioni ha agito professionalmente per andare a limare le sbavature improprie del mezzo, mostrando come risultato una figura più compatta e meno marziana. Era l'epoca in cui molti, soprattutto artisti, guardavano con sospetto alla fotografia. Non era certo arte quella riproduzione secca e diretta della realtà, mancava di estro e d'interpretazione. Poi si capì che la fotografia non pretendeva sfidare la pittura, ma parafrasando Man Ray “dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere”. Divenne allora un incanto la visione di certi capolavori, l'occhio umano si evolveva e procedeva alla scoperta della realtà usando nuovi mezzi interpretativi, cogliendo particolari sfuggiti e irripetibili.
Capitò che nel 1947 un fulmine di luce attraversò l'intuito del trentasettenne Edwin Herbert Land, che scosso dal desiderio di annientare il tempo di sviluppo della pellicola, partorì la rivoluzionaria idea dell'istantanea. Perché non poter maneggiare da subito l'immagine stampata? Il geniale rampollo matura la possibilità di applicare già all'interno del mezzo fotografico quella soluzione chimica che permetterà l'evoluzione dell'immagine, da qui la figura a scatoletta o a navicella spaziale della Polaroid. Fu un successo. Giusto il tempo di un click e la Polaroid investe gli animi di un intero pianeta. L'entusiasmo per questa magia prêt-à-porter colpisce chiunque, dal cuore della casalinga sforna-torte e soufflé che immortala la famiglia al mare indossando costumi interi, pinne e salvagenti a paperella, alle menti più sofisticate di artisti trasgressivi e alla ricerca di nuove sperimentazioni, come i celebri Andy Warhol e Ansel Adams. Il progresso fu veloce e si passò presto dal “roll film” alla più conosciuta SX70 e successivamente alla 600. La Polaroid divenne un simbolo per tutta una generazione, un marchio d'appartenenza per una società che velocemente scopriva il boom economico dopo anni di guerra, un gesto che riassumeva l'impeto della modernità in uno batter di ciglia e che lasciava anche giocare i più disinvolti nel processo fulmineo di stampa. Appassionò moltissimi artisti tra cui, oltre ai già citati e capilista Andy Warhol e Ansel Adams, ricordiamo Chuck Close, William Wegman, Robert Rauschenberg, David Hockney, Robert Frank, Robert Mappelthorpe e Lucas Samaras, tutti nomi che compaiono nella famosissima collezione Polaroid. Collezione che un mese fa, precisamente il 21 e 22 giugno, è stata messa all'asta a Sotheby's, New York al 1334 di York Avenue. 1.200 istantanee sono state vendute per risanare i debiti della rinomata compagnia fallita nel 2008, e i ricavi non hanno certo deluso i venditori, basti pensare che un autoritratto di Warhol è stato pagato ben 254.500 $. Le Polaroid più quotate sono però state quelle di Adams tra cui Clearing Winter Storm del valore di 722.500 $, seguita da Moonrise, Aspens e Winter Sunrise. Così se ne vanno tra le mani degli acquirenti più soddisfatti gli scatti d'artista che avevano incantato il novecento, emblemi di un mondo che cresceva rigonfio di desideri e rivolto a un futuro già pronto a sussumerlo tra le pieghe del progresso che trascinava con sé. Il digitale non ha però obliato il piacere della pellicola, e neppure la magia dell'istantanea. Seppure profughi di un tempo non loro, esuli ribelli testimoni dell'impressione, adoratori di marchingegni da appendere al collo, sopravvivono oggi i cultori della Polaroid.
L'azienda madre, oggi guidata da un'estroversa Lady Gaga, non produce più pellicole ma ha reinventato l'idea di Polaroid inserendola a tutti gli effetti nel contemporaneo tempo in cui ci troviamo a vivere. Ebbene si, hanno digitalizzato la Polaroid! Stampantina portatile, il modello 300 sbarca sulla terra. Niente da ridire sull'uso del digitale, solo un po' di rammarico sull'aut aut con la pellicola. Certo, le richieste di mercato e il fallimento precedente avranno obbligato a rinunciare all'ignorata istantanea, ma a noi instancabili romantici e cultori di un tempo senza spazio piace ancora pensare che non tutto si riduca a un calcolo economico. Impossible Project, un gruppo di ex dipendenti dell'azienda guidati da F.Kaps, dopo 17 mesi di ricerca e studi, ha salvato dalla disperazione moltissimi affezionati dell'analogico iniziando a produrre nuovamente pellicole per Polaroid SX70 e 600. Segno che in questa società dell'apparenza e della mediazione, società che interviene a prendere potere in ogni interstizio delle nostre vite, c'è forse ancora modo di tenersi uno spazio proprio, che seppure dentro la contemporaneità ne rimane da una parte svincolato.