LAST OF THE COUNTRY GENTLEMAN

E’ appena calata la notte là, a due passi dal deserto. Un senso opprimente d’infinito e di solitudine. Sabbia e roccia levigate dal vento e i solchi profondi di una terra bruciata dal sole. Quegli stessi solchi che scavano il volto delle persone, che ne costituiscono la mappa di una vita. Spesso è il dolore che lascia la scia di una ruga sul viso, un segno della sua presenza, per non illuderti troppo anche quando se n’è andato via.
Ma ci sono persone che l’asprezza di quella ruga la sanno trasformare in arte, in poesia, nella sublimità di una melodia.
Il dolore percorre così la fronte di un uomo, raggiunge il limite del volto e, trasformato in pensiero, in parola, in suono, si infila altrove, come acqua sporca in un canale di scolo. Quel dolore è infatti la spina dorsale delle sette tracce di un album straordinario e inaspettato.
L’uomo in questione si chiama Josh T. Pearson, ed è sopra una fronte alta e corrucciata che si consuma il paesaggio della sua sofferenza. Un volto fragile nascosto dietro una lunga barba da asceta, secca come un arbusto del deserto, e occhi azzurri e gelidi come un cielo che non lascia scampo. Osservandolo, gli abitanti della modesta cittadina di provincia dove per anni si era rintanato, devono essersi chiesti cosa ci facesse quel volto funereo di druido nel bel mezzo della polverosa provincia texana.
La risposta è arrivata qualche anno dopo, nel marzo del 2011, con l'uscita di “Last of the Country Gentleman”. Era forse serbata per questo lavoro, per questo lungo viaggio interiore che attraversa la rottura del suo matrimonio e sfocia nell’afflitta meditazione che percorre l'album.
La notte. Il deserto. La solitudine. Mettiamoci ora un uomo nudo di fronte a sé stesso, che non cerca giustificazioni perché parla direttamente alla sua coscienza, che non ha bisogno di nascondersi perché si nasconderebbe a sé stesso. Così comincia la narrazione. Una narrazione al vento come quando, a volte, nel parlare tra sé e sé, capita che un pensiero sfugga al controllo e si traduca in parola, in un borbottio involontario. Ecco, Pearson è riuscito a tradurre questi pensieri, i più veri, non in quel borbottio involontario ma in suono e in canto.
Il disco si apre con l'intensa Thou Art Loosed, un canto che si leva dal suolo, come vapore umido dopo un acquazzone estivo. La voce, limpida e celestiale, si spande in un crescendo emotivo dal potere liturgico, sostenuta per contrasto da una pioggia battente di arpeggi veloci à la Leonard Cohen.
C'è un filo sottile e inevitabile che lega questa prima traccia con Drive Her Out, titolo che chiude l'album. È la consapevolezza della fine. La fine di un amore, di una condivisione, di un matrimonio, di un pezzo di vita. È la rassegnazione che questa consapevolezza produce. C'è davvero poca distanza tra il “Don’t cry for me baby / You’ll learn to live without me” della prima e il “Could you help me get her out of my mind / God damn It’s drivin’ me blind” dell'ultima.
Tutto ciò che c'è in mezzo è invece una specie di lungo flashback. Scorrono nella mente e nelle dita di Pearson tutti gli errori, le scuse, le tribolazioni, le stanchezze e gli affanni e le ragioni di questa sconfitta.
L'incredibile intensità delle melodie (basterebbe ascoltare gli ultimi due minuti strumentali di Sorry with a Song per capacitarsene) muove, nell'animo di chi ascolta, una catarsi necessaria e inevitabile. Non ci si può sottrarre. Si viene catturati e legati alle strutture del suono, ogni nota è un nodo stretto alle caviglie. Una volta immobilizzati, non si può sfuggire all'empatia, ad un'immedesimazione tanto dolorosa quanto liberatoria.
Non resta che lasciarsi trasportare da questi lunghi monologhi interiori, flussi di coscienza per voce e chitarra. Verbosi, ma contemporaneamente scarni, vulnerabili, inscheletriti. L'unica fibra che s'intravede, l'unica cartilagine che sopravvive tra i resti di quella carcassa, è il violino di Warren Ellis (già col gruppo australiano dei Dirty Three). Di fronte alla nudità essenziale dell'opera, Ellis ricama un lieve sudario.
Come un respiro, come un'esalazione, s'inserisce nel dialogo, tra gli intrecci di voce e chitarra.
I suoi contrappunti passano sulla melodia come carta vetrata, riempiono l'armonia levigando la secchezza metallica delle corde pizzicate, accarezzate o arpionate dalla mano di Pearson.


Ed egli, dal canto suo, costruisce un'operazione che è al tempo stesso rivoluzionaria ed antiquaria. Vincola nuovamente la musica alle parole, e le parole alla musica, in modo tale che sono proprio queste a determinare l'andamento ritmico della canzone. Il ritmo torna ad essere naturale. Torna ad essere il ritmo libero che, dalla Grecia antica fino al canto Gregoriano, accompagnava prosa e poesia. Le note sembrano essere appese alle parole, inchiodate ad esse. La musica sembra assorbire i loro umori per farsi portare da esse. Tutto ciò è in realtà il risultato di un processo inverso: Pearson costruisce inizialmente la melodia, lasciandola libera, lasciandola andare dove essa, per sua natura, è diretta. Il testo viene quindi sezionato e inciso perché possa aderire al tessuto melodico, perché lo impregni della sua linfa.
E la voce è l'arteria dove essa scorre. Nei suoi scalpiti, nelle sue virate, nei sussurri delicati, nelle parole strozzate o inciampate corrono tutti i sentimenti che quelle parole, quel canto, hanno prodotto. La dolcezza, la paura, la rabbia, la disperazione. Si ha l’impressione che quelle parole siano state serbate a lungo, pesate, sedimentate e trasportate dalla sorgente alla foce della coscienza per lungo tempo. E sembrano scaturire soltanto ora, per la prima volta e in tutta la loro potenza.
Per questo motivo la sua opera suona così meravigliosamente sincera. A questo punto persino nella nota fuori posto, stonata, voluta o inciampata tra le dita, si percepisce tutta l'urgenza della sincerità.

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