DE CHIRICO - IL SILENZIO MAESTOSO DI UN'INTERA UMANITÀ


Un pittore della metafisica, uno scrittore surrealista, un genio accademico dell’arte scientifica, ma anche classica, il genio di Giorgio De Chirico e le sue rappresentazioni esistenziali sono state presentate a Trieste il 3 dicembre 2010 fino al 27 febbraio 2011 in una mostra interamente dedicata al suo percorso artistico, presso il Castello di Miramare. L’esposizione di opere e schizzi, foto e immagini di vita del pittore, hanno tracciato un percorso lineare lungo tutta la mostra, allestita in tre piani, seguendo l’evoluzione dell’arte di De Chirico, dagli inizi, al massimo sviluppo, fino agli ultimi anni della sua professione. Attraverso la mostra, si percepiva il messaggio autentico e originale di un Maestoso Silenzio, quell’assenza di rumore che De Chirico ha scelto di elevare come portavoce di tutta la sua arte, trasmettendone il significato con manichini, oracoli e templi. Dalla prima parte della mostra si notava come De Chirico non fosse solo un pittore di tagli geometrici, bensì con una pittura più classica, volesse rappresentare e trasmettere quell’intimità che caratterizza il singolo individuo, il sentimento che predispone l’animo umano alla propria personale introspezione. De Chirico dipingeva l’interiorità, come la nostalgia di un paesaggio, l’angoscia di un addio, la tristezza di un ricordo, sia attraverso la natura, sia, nella sua evoluzione pittorica, nell’immobilità di oracoli e manichini senza volto, che richiamavano il senso profondo di quel Maestoso Silenzio. La scelta di precise immagini e personaggi, rappresentati in opere come I mobili nella valle, Le muse inquietanti o Piazza d’Italia, tracciavano un percorso coerente da parte dell’autore e ne svelavano il messaggio originale, quasi provocatorio, dato da rappresentazioni che descrivevano alla vista la sospensione del tempo di oggetti lanciati dentro una dimensione metafisica, al di là del visibile, in una sorta di non – tempo, come le piazze, normalmente considerate luogo di ritrovo e di vita pubblica, con De Chirico assumevano il ruolo della desolazione, del vuoto, della solitudine; allo stesso modo armadi e poltrone appostate in un paesaggio deserto, dove può esistere ogni forma di vita, tranne oggetti di arredamento o coperte da camera. È volutamente un incrocio improvviso tra passato, presente e futuro, che crea allo spettatore una perdizione visiva, una sorta di destabilizzazione esistenziale nella proiezione di sguardi sospesi, ma che, allo stesso tempo rappresenta una realtà circostante.
La condizione devastante dell’uomo contemporaneo, nel suo individualismo, forzato e malato, la solitudine del singolo che non trova
riscatto né risposta nella società in cui è inserito, nella sua comunità. Attraverso raffigurazioni di cavalli da battaglia, personaggi dell’Iliade in lotta e oracoli maestosi, De Chirico svela al pubblico e al singolo un messaggio di anestesia emotiva, la perdita del senso di lotta, di vittoria, che è stata sostituita da un’assenza esistenziale, umana, percepibile solo grazie alla metafisica dei sensi, dove si cerca al di là del visibile un simbolo di riscatto, qualcosa che sveli e risolva la precarietà del singolo individuo nella sua nuova condizione di silenzio. È facile confondere questo genere di arte con il surrealismo de Breton e Dalì, i quali, però, pur molto vicini al pensiero metafisico, sceglievano di rappresentare mondi e sogni surreali, che trascendessero la realtà opaca, a loro circostante; De Chirico, invece, sceglie di rivelare, schematicamente, la deformazione esistenziale di cui si è vestita l’intera umanità, sprofondando in silenzi massacranti; una visione autentica e ancora riscontrabile nell’uomo dei giorni nostri, dove la singolarità diventa la tutela personale di ognuno, dove un manichino diventa il simbolo dell’essere umano, senza espressione né reazione, e dove l’inerzia e il senso di abbandono si elevano a inno di precarietà.

BLACK SWAN THEORY


Da poco nelle sale italiane, Black Swan è apparso per la prima volta negli Stati Uniti nel 2010, per la regia di Darren Aronofsky (vd. Requiem for a dream). Black Swan è uno di quei film che ti s’insinua nella mente e ti accompagna per la strada durante il ritorno dal cinema. Te lo porti dietro come uno strascico impertinente che si impiglia ad ogni passo sui tombini. Ti chiedi come mai ti sembra ancora di aver davanti agli occhi una ballerina di danza classica che piroetta vertiginosamente
su di sé. Tutto nero. Partiamo da qui, dal nero. Nero è il cigno dionisiaco, il cigno che sente su di sé tutta la forza stremante delle passioni. Nero è il cigno che si lascia prendere dal più grande entusiasmo o dalla più devastante disperazione, non conosce sfumature, per questo è nero. Percepisce sulla sua pelle solo l’intensità. Il cigno bianco è invece il grazioso volatile dalle piume pettinate e ben aggraziato, ordina lo spazio che lo circonda e con raffinatezza si lascia coccolare dalle onde del lago. Cigno nero e cigno bianco vivono nello stesso essere, come due facce di una stessa medaglia, scura e chiara. Questa infatti l’intenzione del regista della New York City Ballet
Company, impersonato da Vincent Cassel, che vuole ridare gloria al suo teatro rivisitando il celebre Swan Lake di Tchaikovsky. Alla ricerca del cigno danzante in grado di sopportare ed esporre la tensione insolubile tra passione e ragione Cassel rivolge il suo interesse alla candida e pressoché vergine Natalie Portman, detta Nina. La ballerina, dotata di un talento eccezionale e rigorosa nello studio della danza, non riesce però a farsi investire dalle forzeirrazionali del cigno nero, che però sente prossime. Per un istante, la graziosa perde il lume e con un atto di violenza controllata aggredisce il direttore perché innervosita dalla possibilità di non prendere il ruolo. Inizia ad uscire la forza. Così Nina viene scelta interprete del cigno bianco e di quello nero. La giovane graziosa si lascia prendere sempre più intensamente dalle forze oscure del piumaggio corvino e gioca il suo ruolo per annullare le barriere che potenzialmente la separano dall’irreale.
Comincia la perdita del limite del sé, comincia la psicosi (così detta). Comincia la follia di chi si apre alla vita, di chi non riesce ad essere se non vivendosi fino all’estremo. Pur rischiando di precipitare nell’abisso sottostante, l’uomo che patisce soffre per vivere, ama la vita e l’accetta pur nella sua più grande pulsione di morte ma allo stesso tempo di piacere. Allucinazioni, violenze fisiche, masturbazioni. Nina non riesce più a separare ciò che vive dentro di sé e ciò che sta vivendo come cigno nero. La sua vita non ha più contorni che la proteggono dal divampare dell’arte. Percepita per la prima volta questa forza sublime, la ballerina si spinge a visitare i luoghi più bui che la interpellano dentro di sé.
Irruzione dell’assenza di senso, irruzione dell’imperfezione. Imperfezione che risiede nella tecnica, perfezione che vive nell’errore di farsi coinvolgere fino alla perdizione. Fusione completa tra vita e arte. Fusione che ogni tanto si coglie anche a livello filmico. Infatti, a volte si ha l’impressione di assistere ad un’opera dentro l’opera. Le musiche sono eccezionali, e la fotografia di Matthew Libatique arriva a cogliere le più tremolanti eccitazioni nervose. Il cigno nero schizza fuori dallo schermo piroettando come un irresponsabile animale passionale. Ti vorrebbe stordire e confondere. Chissà. Il finale del film è un crescendo vertiginoso che tira la pelle, strizza gli occhi e rovescia lo stomaco. Anche lo spettatore comincia a perdere le barriere che lo separano dalla sua sediolina rossa. Comincia a piroettare piroettare piroettare sempre più forte, fino al salto nel vuoto che lo attira. Il cigno nero è là. Nero. Muore. Vive.

STOCKHOLM E LA MAGLIETTA FINLANDESE


Stockholm è la mia città. L'amore è nato nel 1994, un colpo di fulmine, un amore tenuto nascosto per svariati anni. Un giorno di 16 anni dopo decisi di fare un'ispezione in Sverige ad osservare la situazione generale della città. Arrivai lì e mi sentii subito a casa. Arrivai a Nyköping e da lì presi il pullman per il centro della città, nel Norrmalm. All'inizio ero tranquillo, feci un giro per la Gamlastan e lì fu l'emozione più grande, la vista sul molo (Gamlastan è un'isoletta situata tra Norrmalm e Södermalm con vista del lago Mälarem in direzione ovest). La vista era fantastica: io guardavo verso il lago, alla mia destra si trova il municipio in stile italiano con sulla torre le tre corone simbolo del paese – meraviglioso -, mentre a sinistra una muragliata rocciosa con casette colorate. Dopo Gamlastan, per un attimo, attinsi al Sodermalm dove mangiai al McDonald's. Era fantastico, anche se mi sentivo distrutto perché era sera e la notte scorsa non avevo dormito, tanto che al momento di pagare, invece di pagare 60 korone diedi alla cassiera 600 korone, che sarebbero 60 euro. Fu una risata generale e dissi alla cassiera che avrebbe potuto approfittare di me e rubarmi tutto perché non avevo dormito l'ultima notte. Lei sorrise. Il giorno dopo potevo praticamente già gettare via la mappa. La maglietta finlandese, che utilizzavo per girare per l’arcipelago, riscuote successo subito, infatti già il primo giorno mi fermò un gruppetto di ragazze le quali mi gridarono: Anteeksi! che in finlandese significa scusa (le ragazze facevano “colletta”, era una specie di addio al nubilato). Passeggiando per il centro, un ragazzo che mi passo difronte mi salutò: Terve; di tanto in tanto sentivo gente che mi urlava qualcosa in finlandese amichevolmente, e un signore mi fermò e mi chiese che cosa ci fa un finlandese a Stockholm. Uno degli obiettivi a Stockholm era vedere un alce, che è probabilmente uno degli animali più affascinanti che ci siano, infatti è l’unico della famiglia dei cervi che per il quale la femmina si contende il maschio che coi suoi enormi palchi strega la femmina. La sera più particolare fu quando girando nell’isoletta a sud del centro, la Sodermalm, dove andando a cena vidi che per i bar lungo la strada, la Götgatan la via principale dell’isoletta, la gente guardava una partita: passai uno, passai un secondo e al terzo bar vi entrai e chiesi che partita fosse, era la Sverige, e chiesi dove stavano giocando e mi dissero a Stockholm, e dissi ..urca stanno giocando qua! Andando verso cena quasi spensierato, però d’un tratto ebbi un lampo e pensai… io mi lancio verso lo stadio, presi di corsa la metro e domandai dove fosse questo stadio e mi rispose quale perché ci sono 3 stadi a Stockholm, e poi mi dissero che probabilmente giocavano a Solna dove si trova lo stadio Rosunda, arrivai li di corsa senza sapere se la partita era già finita o meno arrivai ai cancelli e mi dissero che mancavano circa 30 minuti e che non potevo entrare, io per convincere la ragazza gli dissi che era il mio compleanno e lei mi rispose che era anche il suo di compleanno, gli mostrai il documento ma non bastò per convincerla. Feci qualche battuta con lei e cercai di trovare una soluzione, vidi un signora in un cancello li vicino, andai da lei e mi disse che a settembre ci sarebbe stata un’altra partita… le spiegai la situazione e per miracolo mi fece entrare. Entrai che c’era lo stadio pieno le due tribune e la curva tutte giallo blu cantando sveeerigé, sveeerigè, ai quali mi unii anch’io, e la curva ospiti “ulma” di scozzesi in kilt probabilmente quasi tutti mezzi ubriachi che urlavano 3 volte più forte degli svedesi che erano più del triplo di loro. Alla fine della partita riuscii ad avvicinarmi alla curva svedese.
Andando via presi la Tunnelbana (metro) nella quale c’erano praticamente tutti i tifosi scozzesi e finalmente capii perché in quei giorni in giro per la capitale c’erano un sacco di scozzesi in kilt, conobbi in particolare un ragazzo scozzese mezzo ubriaco, che avevo difronte attaccato a me per la ressa della metro, il quale si era intestardito di capire che cosa fosse il mio ciondolo della collanina, gli dissi che ero stato a Fatima due mesi prima, luogo dove fu apparsa la Madonna, lui non sapeva dove fosse Fatima. Ci conoscemmo un po', e disse ai suoi amici chi sta meglio di noi... abbiamo anche un fottuto italiano…!

LES DEMOISELLES D'AVIGNON


Ultimamente è sempre più di moda parlare e sentire parlare di escort, ovvero di puttane. Puttane come quelle che intorno al 1907 Pablo Picasso decise di intrappolare in una delle sue più famose opere: Les Demoiselles d’Avignon.
Dopo detto che l’Opera si trova al Museo d’ Arte Moderna a New York, c’è da dire che questa inquietante immagine segna un punto di svolta nell’arte del XX secolo. Prendendo le distanze dalla tradizione, Picasso deliberatamente si beffò dell’idea secondo la quale i dipinti dovevano rispecchiare soltanto ciò che l’Artista poteva vedere da un particolare punto di vista.
Le “demoiselles” del titolo sono prostitute di un bordello di Barcellona. In un primo tempo tutti e cinque i nudi femminili furono dipinti nello “stile iberico” che Picasso aveva sviluppato nell’antica arte spagnola. Ma nell’estate del 1907 subì il fascino dell’arte dell’Africa e dell’Oceania, e ciò lo indusse a creare una disarmonia che ottenne in questo quadro ridipingendo in scuro la figura del lato sinistro e dando alle due donne del lato destro volti spaventosi, simili a maschere. La figura accovacciata venne anche distorta e mostrata simultaneamente da due punti di vista, di spalle e di fronte: un’idea rivoluzionaria per quel tempo. Ne consegue che non c’è più un unico punto di vista: chi osserva il dipinto vede ciò che l’Artista vedrebbe se girasse continuamente intorno alle modelle.
Al centro della base dell’Opera d’Arte, disposta su una tovaglia bianca, con l’angolo del tavolo orientato verso l’alto (qualcuno vi ha visto una metafora sessuale), c’è una composizione di frutta dipinta negli innaturali colori terracotta e bianco e pesantemente contornata in nero. Questa natura morta potrebbe essere un richiamo simbolico alla decadenza e alla morte.