QUAL E' LA NOSTRA PARTE IN TUTTO QUESTO?


Molto probabilmente, l’esperienza che lo spettatore trae nel 2011, dall’assistere alla rappresentazione di Aspettando Godot è molto cambiata rispetto a quella dei primi spettatori, nell’ormai lontano 1952.
Se sessant’anni fa un testo del genere appariva rivoluzionario – e in effetti non ci sono dubbi che lo fosse – oggi, nel ventunesimo secolo, le cose non stanno più negli stessi termini. Il motivo principale va a mio avviso ricercato innanzitutto nel tempo trascorso dall’apparizione di quest’opera, decenni che ne hanno consentito la storicizzazione e durante i quali si è sviluppato un amplissimo dibattito attorno a tutti gli aspetti (testuali, linguistici, contestuali, interpretativi) della pièce, tanto da fare delle parole che ne compongono il titolo un’espressione proverbiale, che è entrata a pieno titolo a far parte del linguaggio comune. Possiamo dire che il tratto di fondo che accomuna tutte le innumerevoli analisi e interpretazioni che sono state date dell’opera di Samuel Beckett (1906-1989), premio Nobel nel 1969, è il riconoscimento del suo essere una pietra miliare della letteratura del Novecento, sia per quanto concerne il linguaggio che per l’aspetto contenutistico: da questi punti di vista personalmente mi sento di accomunarlo ad un altro grande irlandese, James Joyce, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano. Tornando al Godot, la sua freschezza non risulta affatto pregiudicata dal florilegio di costruzioni interpretative che si sono accavallate negli anni, anzi al contrario è proprio oggi che possiamo guardare ad essa con un occhio rinnovato, mettendo da parte in una specie di epoché le tante (e forse troppe) glosse che, ai margini del testo, si sono accumulate. Questa operazione risulta facile ma allo stesso tempo assai coinvolgente, poi, quando si abbia l’occasione di assistere alla messa in scena dell’opera da parte di un bravissimo regista, Marco Sciaccaluga (condirettore del Teatro stabile di Genova, che ha prodotto l’allestimento della pièce passata al Teatro Rossetti dal 12 al 16 gennaio scorsi), e di straordinari interpreti quali Eros Pagni ed Ugo Pagliai, rispettivamente nelle parti di Vladimiro ed Estragone – oltre agli altrettanto eccellenti Gianluca Gobbi (Pozzo), Roberto Serpi (Lucky) e Alice Arcuri (il ragazzo). La trama della storia è tanto semplice quanto densa di spunti e occasioni di riflessione. La sintesi che ne dà Carlo Fruttero – traduttore in italiano del testo sul quale anche questa versione si è basata – risulta ancor oggi impareggiabile e vale la pena citarla (tra l’altro, le considerazioni di Fruttero nella sua nota introduttiva, del 1955, sono ancor oggi illuminanti): «due mendicanti, Vladimiro ed Estragone, aspettano in aperta campagna un certo Godot, dal quale sperano ottenere una vaga sistemazione. I due, non solo non hanno mai visto Godot, ma non sono sicuri né del luogo né del giorno dell’appuntamento. Dopo una lunga attesa arriva Pozzo, un ricco castellano che porta al guinzaglio il suo servitore Lucky. Pozzo si intrattiene per qualche tempo coi due mendicanti e riparte. L’attesa continua fino all’arrivo di un ragazzo con un messaggio di Godot: Godot non verrà più stasera, ma certamente domani. Vladimiro ed Estragone ricominciano ad aspettare. Il secondo atto è quasi identico al primo: l’attesa, l’arrivo di Pozzo e Lucky, l’uno cieco e l’altro stremato, il messaggio del ragazzo: Godot non verrà più stasera, ma certamente domani. Il sipario cala su Vladimiro ed Estragone che, immobili, attendono ancora».
Una estrema staticità pare contrassegnare tutta la vicenda, ma a un guardare più attento è una staticità mobile, attiva, che pur dispiegandosi in un ambiente e in un insieme di fatti che sembrano sempre i medesimi, in realtà coinvolge lo spettatore e lo fa partecipe di questi eventi non tanto dal punto di vista fisico, quanto da quello intellettuale, sollecitandone la riflessione: non è un caso, dunque, che ne siano scaturite mille e mille interpretazioni. D’altra parte, come si può non rimanere colpiti da certe battute fulminanti, che apparentemente escono dalla bocca dei protagonisti quasi per caso all’interno dei loro dialoghi (unico loro strumento per non annoiarsi, in attesa del “Godot” che stanno aspettando) ma che in realtà sono lampi che spalancano abissi di pensieri? Eccone un paio soltanto: «Non si corre più il rischio di pensare»; «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?» Dietro al voluto minimalismo di Beckett, che si declina nell’ambientazione, nella trama e nei dialoghi stessi, si cela quindi un di più, un pozzo profondissimo di pensieri, accenni e allusioni che si esprimono attraverso gli stralunati scambi di battute fra Vladimiro ed Estragone (e fra loro e Pozzo), e che ancora oggi – quando ci sembra che il nostro pensiero sia sempre più anestetizzato e che qualsiasi cosa sia già stata detta e scritta – ci conquista e insieme ci sollecita a riflettere, a porci dei dubbi e a chiederci chi sia questo Godot che loro, e noi con essi, attendiamo.

THIS HAPPENS ONLY IN ZAGREB - THE NATIONAL

Si presentano a Zagabria con il massimo delle aspettative i The National, complesso rock originario di Cincinnati (Ohio), che ritorna nella capitale croata per il tour del loro ultimo album: High Violet. è semplicemente un successo, entrato nella top ten di mezzo mondo, apprezzato dalla critica, porta il loro rock malinconico ed intellettuale alla ribalta della scena internazionale inanellando sold out; tra questi vi è anche il concerto di Zagabria, organizzato per l’occasione al Boćarski Dom il 14 novembre 2010. Complice un ritardo al confine con l’Ungheria il gruppo arriva in ritardo facendo attendere in fila i tremila fans che possono entrare nel locale solo dopo un’attesa che dura tre quarti d’ora rispetto all’orario prestabilito. L’attesa in fila e l’ingresso in ritardo impediscono la partecipazione di buona parte del pubblico al concerto del gruppo di apertura: i Phosphorescent, gruppo country-rock americano che ben figura di fronte ad un uditorio disattento e per lo più impaziente di ascoltare i The National. Da qui il palco con scenografia volutamente scarna, un enorme telone bianco illuminato di un viola tenue, gli strumenti rigorosamente al loro posto, la musica di sottofondo e… l’attesa. Il pubblico rumoreggia, acclama a gran voce ed intanto continua ad aspettare mentre i minuti passano interminabili. Dopo un’attesa di venti minuti il complesso si presenta sul palcoscenico tra il tripudio dei fans; il quintetto statunitense, dove spicca il cantante/baritono Matt Berninger ed i fratelli Dessner, viene ampliato con due fiati che portano a sette il numero di persone sul palco. Inizio con il brivido: la lenta e commuovente Run Away scioglie il pubblico che la canta in sincronia e accompagna le pause della canzone con sonori applausi; il proseguo è un alternarsi di tracce nuove e vecchi successi che continuano ad essere intonati costantemente dal pubblico che riesce a colpire il complesso inaspettatamente sorpreso da tale partecipazione; si susseguono Mistaken for Strangers, Bloodbuzz Ohio, Slow Show, Sorrow… giusto per citare le più importanti. Il cantante, che si alterna tra microfono e calice di vino bianco (senza però pregiudicare la prestazione) continua a ringraziare sempre più complice con il pubblico: cit.”Probably we have more fans here than in Ohio” (probabilmente abbiamo più fans qui che in Ohio). Il concerto continua a salire di tono, l’energia non stenta a diminuire, anzi aumenta: Apartment Story, poi Abel con il ritornello strillato, la riflessiva England, il successo Fake Empire in un tripudio di luci e braccia alzate, poi Available e Cardinal Song… : cit. This happens only in Zagreb! Luci spente. Il bis è scontato, il gruppo si ripresenta dal pubblico che mai come in quel momento è stato suo; prima Start a War, poi passa alla melanconica All the Wine ed infine l’altalenante Mr November. E’ inutile ricordare le voci che continuano ad accompagnare il complesso. Luci spente. Di nuovo. Di nuovo il pubblico che acclama.
Di nuovo il gruppo che torna sul palco. La performance di Terrible Love si avvicina alla perfezione con il progressivo incalzare della canzone che porta il grado di condivisione palco/uditorio a livelli inverosimili. Poi, qualcosa di unico, qualcosa di veramente emozionante. Via gli strumenti, via il microfono, arrivano due chitarre acustiche ed i componenti del gruppo si compattano al centro del palco: “Ora noi avremmo bisogno di silenzio e del vostro aiuto a cantare questa canzone”. Incominciano a intonare la tristemente splendida Vanderlyle Crybaby Geeks accompagnati da tremila voci. Quattro minuti da brivido. Il pubblico di Zagabria, il pubblico che parte dai teenager e arriva ai sessantenni, il pubblico che è stato coprotagonista di una performance straordinaria omaggia con un lungo e caldo applauso i The National e spera di poterli ritrovare al più presto.

Guardateli su youtube (link), e ascoltateli sui siti:

LO "SCIAMPO" DEGLI SCRITTORI

Chi l’ha detto che i locali notturni, come bar e pub, permettono solo il divertimento sfrenato con musica altissima e fiumi di alcool? Normalmente l’immaginario comune riflette l’idea di “divertimento notturno” sui decibel che i dj concedono alle loro casse, magari accompagnati da una buona dose di cocktails per reggere meglio; ma a volte c’è anche l’eccezione che conferma la regola. A Trieste il bar Naima, conosciuto sicuramente dalla maggior parte dei giovani triestini e non, ogni due martedì al mese organizza una serata/nottata dedicata alla lettura. L’evento si chiama Sciampo, nasce nel 2003 come volontà di sdrammatizzare la “serietà letteraria” dei circoli intellettuali, molto diffusi a Trieste: chi vuole si siede sulla seggiola rossa da barbiere – da cui si rifà il nome dell’evento – e con un microfono puntato di fronte, si cimenta nella lettura “sdrammatizzata” di prosa o poesia propria o di testi di scrittori illustri. Nel 2003 Sciampo era un evento di intrattenimento nato per rompere le regole tra i giovani clienti affezionati al Naima, i quali hanno permesso la continuità dell’appuntamento letterario per due anni consecutivi: come una piccola grande famiglia, il Naima era diventato la roccaforte e il rifugio di moltissimi, un luogo di ritrovo dove l’arte, la serenità e la musica jazz concedevano un momento di sollievo; un bar di divertimento per chi ricercasse leggerezza, un luogo di riflessione per chi volesse meditare, un terreno di incontri per chi preferisse socializzare.
Ma come tutte le belle cose, se non vengono alimentate, rischiano di morire lentamente: anche Sciampo era caduto nella rete della routine, dentro un senso di abitudine a qualcosa che sembrava non invecchiare mai, tanto che per due anni è stato messo da parte, ma non dimenticato. Grazie alla presenza di Lorenza, barista del Naima e assidua sostenitrice di Sciampo, si è deciso di riprendere l’iniziativa per ricordare la memoria di questa ragazza, adorata da tutti i clienti e “sciampisti”, dopo la sua tragica scomparsa a causa di un incidente. Il Naima all’improvviso si è ritrovato senza la sua colonna portante per le serate di Sciampo, senza la più solare sostenitrice di ogni lettura, che trasmetteva con gioia a tutti i presenti e partecipanti; di conseguenza, i figli del Naima hanno sentito l’urgenza di renderle omaggio attraverso la memoria, facendo diventare Sciampo il suo stesso ricordo.
Ancora oggi gli “sciampisti” sentono forte il richiamo mensile di quelle letture, ne cercano la presenza per parlare a Lorenza, per dimostrare alla piccola famiglia del Naima che Sciampo ha trovato un nuovo senso nel suo piccolo grande circolo di scrittori sciampisti. Alcuni presentano pezzi di racconti, di uno stile ricercato, intrecci di dialoghi, discorsi in dialetto triestino o in lingua italiana, altri propongono le proprie poesie, psichedeliche e immediate, altri ancora scelgono come protagonisti grandi scrittori, come Baudelaire, Blake, Lorca, alcuni invece intrecciano parole e musica, con intermezzi di sassofono, chitarra o armonica, il tutto accompagnato da un continuo via vai di persone che entrano ed escono, chi per assistere a Sciampo, chi per bere qualcosa con un sottofondo di parole che rimbombano in tutto il locale.
Sciampo è libertà d’espressione, una nuova forma d’arte che concede spazio a quegli scritti rimasti chiusi nel cassetto per anni, è il talento umano in una dimensione ironica, semplice e coinvolgente, in cui qualunque parola scritta prende valore su una sedia da barbiere, e la teatralità vocale diventa portavoce dell’intimità del singolo lettore. Chiunque è il benvenuto a prendere posto sulla sedia rossa, ogni timbro diventa parte della storia di questo sfuggente e schivo “movimento letterario”: quindi spargiamo la voce tra i tanti talenti presenti a Trieste, a tutti quelli che vorrebbero poter legger qualcosa di proprio, senza, però, troppo impegno né ansia da prestazione, magari con un bicchiere in mano per darsi coraggio e avendo attorno una buona squadra di amici e sciampisti, pronti ad ascoltare un pezzo nuovo.

JIM GOLDBERG A PORDENONE


Pordenone – la piccola provincia del nordest italiano ha aperto a novembre ParCo, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea. Due gli spazi espositivi dedicati all'arte moderna e contemporanea, rispettivamente la Galleria Armando Pizzinato all'interno del Parco di Villa Galvani ospitante fino al 30 gennaio la mostra Corrado Cagli e il suo magistero; e gli Spazi Espositivi di Via Bertossi, attaulmente assediati dall'opera di Jim Goldberg visitabile anch'essa fino al 30 gennaio. Stupisce positivamente e se ne rallegrano i visitatori, ParCo è una realtà che mancava ed ha cominciato con urto non inascoltabile. Siamo forse poco abituati nel nostro paese a frequentare con una certa regolarità musei, esposizioni temporanee, teatri, monumenti e quant'altro, ci spaventa credo la possibilità di ritrovarci spiazzati in un'assenza di tempo che ci costringe a guardare, che ci offre la mano per riflettere, per osservarci all'interno di un'immagine, per ritrovarci spiazzati difronte all'incomprensibile difficoltà di espirmersi a parole. Volendo essere sinceri e riprendendo le parole del noto Friedrich Nietzsche "l'arte ha più valore della verità" e in quanto tale non le si sfugge. O meglio, ci adoperiamo in tutti i sensi, come formichine laboriose, a istituire idee stabili, definizioni alle quali riferirci e luoghi nei quali trovarci a nostro agio, ma questo senso di verità è talvolta non sufficiente, ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di altro. Se per caso troviamo il momento di abbandonare tutte le nostre struttre quotidiane, la nostra corazza tartarugata del lavoro, del ruolo sociale che ci trasciniamo dietro come effige non svalutabile, lì allora si apre la possibilità di trovare un tempo e uno spazio per se stessi. L'esposizione su Jim Goldberg, per esempio, ci trascina in questo istante di perdizione attraverso gli occhi di uomini che hanno sofferto, che soffrono, o che semplicemente vivono le loro vite al limite dell'esistenza. La mostra nasce dalla collaborazione tra il Comune di Pordenone e MagnumPhotos di Parigi e offre una densa panoramica, ben articolata, dell'opera del fotografo americano. Nell'obiettivo di Jim Goldberg pensiero e azione si fanno tutt'uno rivelando epifanie di sguardi turbati, disadattati, disagiati, violentati, annoiati, persi, stanchi e pensanti. Il suo occhio ritrae con passione e disincanto la realtà che gli si presenta con un gesto privo di sovrastrutture, vuoto di pregiudizi e moralismi. Quasi con gesto d'epoché, Goldberg trasferisce la sua coscienza nel mondo per farle imprimere e vivere il fenomeno presente se non perchè presente, fenomeno che egli si ritrova ad osservare privo di giudizio, fenomeno che affera e lavora per lasciarlo parlare da sè nell'immagine.


Così il progetto Rich and Poor che, pubblicato in forma di libro nel 1985, riunisce una serie di fotografie che ritraggono differenti soggetti nelle loro case, nella loro quotidianità più o meno insolita, accompagnati da pensieri che loro stessi esprimono nel vedersi riflessi; per esempio "I keep thinking where we went wrong. We have no one to talk to now, however, I will not allow this loneliness to destroy me,— I STILL HAVE MY DREAMS. I would like an elegant home, a loving husband and the wealth I am used to. Countess Vivianna de Bronville." Del 1995 è invece il lavoro Raised by Wolves che raccoglie immagini di giovani ragazzi senza casa della California; immagini ruvide e taglienti che lasciano da parte falsi moralismi e con obiettività d'artista fanno affiorare quella solitudine assordante che le grandi città americane offrono. Open See è parte del progetto New Europeans del 2007 e si spinge ai limiti della società, ritraendo uomini, donne e bambini che vivono momenti e luoghi prossimi alla morte: guerre, violenze, povertà, malattie ... ma sono anime che tentano di sfuggire dalle loro vite indesiderate, sguardi tesi verso orizzonti nuovi, verso possibilità diverse, verso il desiderio di cambiare il proprio presente. Una mostra che graffia quella di Goldberg ma che apre gli occhi sulla realtà, anche quella che preferibilmente rifiutiamo perchè effettivamente buca lo stomaco, spaizza e fa sentire a disagio. Una visione sul mondo che oggi ci circonda, un frammento di un discorso ancora da terminare ma che ci appartiene. E allora perchè non perdere un pò di questo prezioso tempo a farsi spiazzare, a farsi togliere dal punto d'equilibrio che ci sostiene quando camminiamo per la strada?