HEMINGWAY - FIESTA THE SUN ALSO RISES

“You’re an expatriate. You’ve lost touch with the soil. Fake European standards have ruined you. You drink yourself to death. You become obsessed by sex. You spend all your time talking, not working. You are an expatriate, see? You hang around cafès”.
Questa la condanna degli americani del primo dopoguerra.
Questo l’urlo di perdizione di una generazione alla deriva.
Questa la chiave segreta per ottenere il proprio riscatto, come società e come singoli individui. Hemingway descrive così i suoi personaggi nel romanzo Fiesta: the sun also rises (1926), quello a lui più caro per i tratti fortemente autobiografici che ne caratterizzano la forma e lo stile conciso, semplice, ma immediato, struggente nello slang quotidiano che lascia trasparire un senso di sarcasmo, mescolato alla disillusione di fronte ad una società in frantumi.
Parliamo infatti della Lost Generation, termine coniato da Gertrude Stein, insieme a Fitzgerald, Hemingway, Steinback e Faulkner, per descrivere quel movimento letterario che negli anni ’20 in America ha scelto di trasmettere un messaggio immediato, senza proiezioni future, né agganci di passato: solo la descrizione attuale di una nazione alla completa deriva, immersa nella disillusione più destabilizzante, quella che non fa sperare in niente, se non nel desiderio di testimoniare quello stato di perdizione, nel presente di allora. Hemingway si fa carico di questa dimensione attraverso gli occhi di Jake, simbolo per eccellenza della disillusione dichiarata dalla sua impotenza sessuale, a causa di una ferita di guerra, che lo condannerà per sempre alla rinuncia di Brett, la donna amata e desiderata da tutti i personaggi del romanzo.
Questa impotenza, però, si eleva anche a livello esistenziale, come perdita dell’identità umana, del singolo individuo che è costretto ad adattarsi ad un nuovo, ma instabile, senso del nulla: Hemingway lo chiama con il termine spagnolo “Nada”, quel niente che dilaga tra tutti i protagonisti di questa disfatta, da Robert, il torero e scrittore, il simbolo del romanticismo, colui che amerà Brett con emotività e trasporto, rimanendone scottato e deluso, quando anche lui, insieme a tutti gli altri, si renderà conto che non potrà avere per sé l’attenzione che lei riversa su chiunque le dia affetto momentaneo, fulmineo, consumato nel sesso lascivo e deludente; allo stesso modo Jake percepisce la superficialità artificiale della stessa donna, che lo ama, di amore puro e incontaminato, ma non realizzabile nella realtà, a causa della sua impotenza. Brett rappresenta la nuova società del dopoguerra, l’inquietudine sociale e individuale che cerca riscatto nel sesso e nell’alchool, nel tentativo di anestetizzare la propria frustrazione. “I suppose she only wanted what she couldn’t have”, così Jake la descrive in poche parole, dando spazio a tutte le circostanze che la vedranno coinvolta nella sua disfatta.
A muovere tutti i personaggi sarà dunque l’immagine idealizzata di Brett, che rimane coerente al suo comportamento sia in Francia, sia nel viaggio in Spagna, a Pamplona e a San Sebastian, quando il gruppo degli espatriati – Jake, Bill (amico di Jake), Robert, Brett e Mike (futuro marito di Brett) – deciderà di cercare un po’ di pace e leggerezza nella terra dei toreros, nella terra de los aficionados, dove Jake e Bill troveranno il loro riscatto attraverso la fusione con il paesaggio e nel contatto con il popolo spagnolo, mentre Brett, Robert e Mike continueranno a rincorrere ognuno le proprie frustrazioni, in un triangolo sentimentale, che vedrà la sconfitta dell’ideale romantico di Robert. Hemingway sceglie la Spagna – terra a lui molto cara – per mettere in luce il diverso approccio della società francese verso gli espatriati americani rispetto alla società spagnola: a San Sebastian i personaggi del romanzo verranno accolti con calore e ospitalità, senza nessun tipo di pregiudizio, bensì con la condivisione di un sentire comune, quello della guerra appunto, che aveva coinvolto ogni paese del mondo.
La Spagna diventerà il simbolo della rinascita, dove la speranza che il sole possa sorgere di nuovo arriva dai caffè e dalle piazze, dai paesaggi e dalla festa di San Firmin, occasione in cui la lotta contro i tori si eleva a rivincita ideale dell’uomo di fronte alla disfatta mondiale e individuale. Sarà proprio in Spagna, prima, durante e dopo la Fiesta che i tasselli dei personaggi troveranno l’incastro, sarà in Spagna che ognuno di loro realizzerà la propria nuova condizione dentro la società emergente e nel proprio intimo. Sarà in Spagna che si chiuderanno i conti con il passato e si accetterà la disillusione come stato primo del nuovo individuo degli anni ’20. In tutto questo l’amore non basterà; quello che rimarrà sarà il sesso come riscatto, un matrimonio senza amore per comodità sociale ed economica tra Brett e Mike, Robert sarà costretto ad assimilarne la sconfitta e Jake, nel suo silenzio, otterrà la conferma da parte di Brett di essere l’unico uomo che ha amato veramente, ma che non potrà sposare. “Women made such sweel friends. Awfully friends. In the firs place, you had to be in love with a woman to have a basis of friendship. I had been having Brett for a friend. I had not been thinking about her side of it. I had been getting something for nothing. That only delayed the presentation of the bill. The bill always came. That was one of the swell things you could count on. I thought I had paid for everything”. Questo sarà il prezzo da pagare, ottenendo in cambio la consapevolezza di un amore puro, autentico e incontaminato, che lascia spazio ad una nuova e costante disillusione.

SIDNEY LUMET


Con Sidney Lumet (1924-2011), morto a New York lo scorso 9 aprile, se ne va un grande maestro della macchina da presa, esemplare rappresentante della “New Hollywood” degli anni Settanta (periodo che coincise, non a caso, con i suoi maggiori successi), ma capace fino all’ultimo di girare film di livello straordinario: è il caso del suo ultimo lungometraggio, Onora il padre e la madre, magistrale thriller del 2007 in cui traspare in totale nitidezza il baratro di cinismo e avidità degli Stati Uniti del XXI secolo.
In esso, come in tutti i film di Lumet, straordinaria è la forza degli interpreti (Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney). È questo forse il principale tratto distintivo dell’opera del regista americano: la forza interpretativa che sapeva trarre dagli attori con cui si trovava a lavorare, come ben si evince dal fatto che 17 degli interpreti dei suoi film furono candidati all’Oscar. E proprio da uno di essi, Al Pacino, viene forse la descrizione migliore del metodo di Lumet: nel libro-intervista Io, Al Pacino (Sperling & Kupfer editore), l’attore dice a un certo punto: «Sidney Lumet è un genio. Non ti dice una parola. Basta il modo in cui ti fa muovere per far vivere la scena. Mi indicava una direzione e diceva: vai qui, vai là. Straordinario».
Figlio di un attore di Broadway, Sidney Lumet fin da giovane iniziò a farsi le ossa nel mondo del teatro e della televisione, risultando un maestro dei generi per eccellenza della tv degli anni Cinquanta, ovvero i drammi e gli sceneggiati ripresi “dal vivo”. Ed è proprio da questo filone che viene la sua prima opera cinematografica: La parola ai giurati, del 1957, ancora oggi avvincente e attuale per il ritmo serrato, lo spirito democratico (anti-pena di morte) e le performance dei protagonisti (fra tutti, uno splendido Henry Fonda).Durante gli anni Sessanta Lumet dirige tutti i
grandi attori dell’epoca: Marlon Brando (assieme ad Anna Magnani in Pelle di serpente), Sean Connery, Rod Steiger, Katharine Hepburn. Ma il vero successo, e i film migliori, appartengono alla decade seguente, in cui Lumet si ritaglia di diritto un posto fra i grandi del cinema, assieme ad altri cineasti della sua generazione: Arthur Penn, John Frankenheimer, Sam Peckimpah, Robert Altman. Tra il 1972 e il 1976 il regista statunitense inanella un quartetto di film ancor oggi imprescindibili: Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Assassinio sull’Orient Express, Quinto potere. Il tratto di fondo di tutte queste pellicole, che lanciarono definitivamente il loro autore, è come detto la forza straordinaria degli attori: si pensi alle fantastiche interpretazioni di Pacino nei primi due, o al cast all-star del terzo, dove ciascuno si esprime al meglio delle proprie possibilità (menzione speciale ad Albert Finney, la cui immedesimazione nel “buffo investigatore dalla testa a uovo” Hercule Poirot stupisce tuttora lo spettatore).
Tra esse, comunque, a mio giudizio, la più attuale e importante – quasi profetica, per certi aspetti – è senz’altro l’ultima, Quinto potere (Network, nel titolo originale), serrato apologo sul potere della televisione, degli anchor-man trascinatori di pubblico e gli interessi che attorno all’audience girano, descritti da un regista che ben conosceva i meccanismi televisivi. Un film che ci parla e ci colpisce ancora oggi.
Chiuso questo periodo d’oro, Lumet continuò comunque a produrre film di impatto notevole, come Il verdetto (1982) con un magistrale Paul Newman, Power, Un’estranea fra noi, fino a venire consacrato da un Oscar alla carriera nel 2005, risarcimento soltanto parziale rispetto a tutte le sue pellicole che l’avrebbero meritato e per le quali non lo vinse mai. Un dovuto omaggio, per tutti gli amanti del cinema, è la lettura del libro Fare un film (minimum fax), in cui Lumet descrive con uno stile piano e asciutto – lo stesso delle sue pellicole – tutti gli aspetti della realizzazione di un lungometraggio con una capacità divulgativa non banale, unita ad una buona dose di curiosità intellettuale, la stessa che ha dato forma ai film più riusciti di questo grande cineasta.

Daniele Lettig

ROSEAU 9A.M.

L’isola che non ti aspetti nel giorno che non ti aspetti. Sono le nove del mattino e Roseau si sveglia sotto un tiepido sole che si maschera tra nuvoloni grigi che circondano le montagne coperte di vegetazione tropicale. La capitale dello stato caraibico di Dominica non è tra le località turistiche più famose e non conferma gli stereotipi del nostro immaginario; qui il cliché dei cocktails in riva al mare e delle spiagge bianche o dorate innaffiate da rum non è confermato e la parte turistica dell’isola è troppo lontana. Il percorso che porta dal porto al centro abitato è una strada larga che corre dritta lungo la costa. Sulla sinistra le case, o meglio baracche ed alcuni capannoni interrotti da qualche deposito di merci oppure qualche distesa d’erba debitamente recintata, e sulla destra, lato mare si intende, un marciapiede che costeggia una spiaggia di sabbia nera con rifiuti qua e là. La strada mi avvicina lentamente al centro abitato composto nella maggior parte da baracche o case; la gente che incontro per strada è poca ma incrociando il loro sguardo contraccambiano con cenni di saluto e larghi sorrisi. Ai margini delle strade senza marciapiedi sostano numerose macchine che si mescolano alle insegne improvvisate e allo stesso tempo originali della città: tattoo studio, parrucchieri, negozi di vario genere e officine di meccanici si alternano tra le case coperte di vernice danneggiata, poster elettorali sbiaditi e immagini sacre. Dimenticavo un particolare importantissimo: è domenica mattina, quindi i negozi e gli esercizi vari sono ovviamente chiusi, la religione qui è una pratica fondamentale e nel giorno di riposo per eccellenza è veramente difficile trovare qualcuno pure per strada. Inoltre, le nuvole grigie si trasformano in un classico temporale estivo che mi obbliga a sostare tra le case, in attesa di una tregua per consentirmi di proseguire verso il cosiddetto centro della città e poter acquistare qualche piccola provvista o qualche ricordo. Ma, tra pioggia e la giornata in se, è quasi impossibile trovare qualcosa di aperto. Continuo il mio avanzare lungo la stessa via mentre nel frattempo la pioggia è terminata e arrivo a un distributore di benzina chiuso ma con un piccolo negozietto annesso aperto; me lo lascio alle spalle sperando di trovare qualcos’altro più avanti, supero in distributore, attraverso un ponte su un fiume dall’acqua torbida e proseguo. Qui almeno c’è più gente per la strada ma più avanzo verso il centro e più le chiusure domenicali confermano ciò che avevo visto per strada. Arrivo praticamente nel centro, vicino alla chiesa una signora mi avvicina chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa, le spiego che cercavo qualsiasi luogo aperto dove poter al massimo prendere qualcosa da bere o da mangiare o almeno una scheda telefonica, ma non c’è niente da fare, la signora mi conferma che è tutto chiuso, sono tutti a pregare. A questo punto, i tempi stretti mi obbligano a ritornare sui miei passi, la sosta al negozietto accanto al benzinaio è necessaria, bibita e scheda telefonica e mi trovo in fila dietro una splendida bambina vestita con un completo rosa chiaro con i dettagli in fucsia e delle impeccabili treccine, la nonna le tiene la mano ma devono sbrigarsi perché sono già in ritardo.
Io ritorno lentamente verso la nave, ripercorrendo il rettilineo dell’andata senza la pioggia a darmi fastidio; passo accanto ad un garage improvvisato a luogo di culto; due file separate di sedie in plastica bianche, le porte socchiuse e tutti seduti all’interno, mi avvicino alla nave lungo il rettilineo ma questa volta passando accanto ad una grande chiesa color giallo e verde sbiadito; il parcheggio è pieno e dall’esterno si sente cantare suggestivamente. In una domenica anomala sono oramai arrivato al cancello che mi riporta a bordo ma prima di salire noto un gruppo di bambini che, sprizzanti di gioia, giocano sulla spiaggia poco curata che precede il porto sotto una scritta “keep the beach clean”. Una domenica di riposo anche per loro, ma anche per me.