IL POTERE DELLE IDEE - Prima puntata


Mi trovo spesso intrappolato in una rete fitta di riflessioni continue e ininterrotte. Pensieri il cui caotico vorticare irrompe in flussi di coscienza senza tempo. Straripano oltre quella sottile linea che separa l’assurdo dal banale e il senso dal non-senso. Mi desto sconvolto dal mio sogno ad occhi aperti e quello che percepisco come reale cessa di essere tale. Il rapsodico incalzare del pensiero mi porta ad esperire la struttura interconnessa in cui siamo immersi in modo sempre nuovo. Altro che cambio di prospettiva! Tutto sembra dissolversi in un soffio e tutto sembra così effimero e al contempo insostenibile. Le idee sono macigni che pesano. Ci sono idee che “spaccano la testa”, ha affermato Deleuze durante un’intervista. Ricordo con precisione la mimica che usò per esprimere questo concetto: le braccia tese sopra la testa, le mani dritte e congiunte, poi una discesa rapida in verticale, fino alle ginocchia. Come l’ascia di un boia percorre un arco perfetto per separare la testa dal corpo del malcapitato, così gli arti del filosofo spezzavano in due una testa immaginaria. Un brivido mi percorse da cima fondo. Come il propagarsi e l’infrangersi delle increspature dell’acqua di un lago in un giorno di pioggia, “vidi” le idee risuonare e vibrare in tutti i livelli della nostra esistenza. Qui inizia il mio viaggio nell’universo delle idee. Sinceramente non so dove andrò a parare. Vorrei accingermi a mettere piede “dove gli angeli esitano”. Ci addentreremo nella trama fitta ed interconnessa dell’universo intangibile delle idee. La struttura sarà saggistica, in odor di prosa e se mi è concesso con un pizzico di poesia. Desidero ergermi apollineamente e avere il coraggio di gridare al mondo che l’unica Verità è che non esiste alcuna Verità! E che Dioniso faccia il resto! Io dal canto mio – memore di quello che scrisse Rovatti nel suo Trasformazioni Nel Corso Dell’esperienza – cercherò di situarmi provvisoriamente tra la ragione forte di chi dice la verità e l’impotenza speculare di chi contempla il proprio nulla. Forse, è solo con un Pensiero Debole che si può affrontare l’insostenibile leggerezza dell’essere, con le sue idee, la coscienza e compagnia bella. Forse, e ribadisco forse, è solo situandosi in quel perpetuo oscillare che si può camminare sul filo del rasoio del nichilismo senza cadere nelle seducenti tentazioni del dogmatismo (sia esso progressista, avanguardista, conservatore o che altro).

Bene possiamo cominciare. Prima però, ritengo opportuno aggiungere alcune cosette. In questo percorso mi avvarrò di contributi provenienti dalle discipline più disparate. La cornice principale è quella che fa riferimento allo studio di sistemi complessi di ogni tipo, sia per quanto riguarda il mondo fisico, biologico e sociale. In fine, ritengo opportuno sottolineare che in questa cornice la scienza o meglio le scienze verranno considerate come mezzi per percepire e dare senso al mondo. Dare senso a qualcosa, significa raccontare una storia, che a prescindere dalla buona fede del narratore è sempre una finzione, frutto di tagli, interdetti che impartiscono ciò che si vuole far passare per vero da ciò che deve apparire falso. Ritengo che simili questioni abbiano un’importanza immensa. Infondo è per una manciata di idee che un esercito può spargere sangue e terrore… (continua sul prossimo numero).

LA DOPPIA VITA DEL DOTTOR BENN



"Talvolta un’ora, e tu esisti; il resto è ciò che accade. Talvolta i due mondi s’innalzano in un solo sogno". (G. Benn, Cervelli, Adelphi, Milano 1986).

Cervelli non ha una trama nel senso stretto del termine. Quello che lega i cinque racconti contenuti nell'opera è la presenza del protagonista ed il modo in cui si muove tra la realtà. Rӧnne, il protagonista, sarebbe facile associarlo quale alter ego di Benn: entrambi medici, entrambi a contatto quotidiano con la morte senza averne la capacità fisica di concepirla. Al di fuori di essa, i valori di una borghesia sana, dei legami che appaiono contro natura, fini di gesti incomprensibili che avevano lacerato l'esistenza. Che fosse la realtà quella? Inizia così un viaggio tra paesaggi desolati e strade piene di persone dove nulla sembrerà far riferimento a delle coordinate che siano misurabili, finché anche l'Io si scioglie in un'illusione. Come sopravvivere? Che sia necessaria una doppia vita? E se il dottor Benn mantenesse i contatti con le cose del mondo, indossando un cappotto e stringendo mani con educazione mentre Rӧnne, annichilito dalla tragedia, si curasse della schizoidità di fondo della sostanza umana? Si apre lo iato tra l'uomo razionale e la natura: ed è la coscienza di quella scienza perfetta a portare al dolore. Platone versus Nietzsche? Forse. Detta adenti stretti, sarebbe più facile accompagnarsi ai bravi signori che al circolo ufficiali buttano giù un bicchierino con una battuta, misurarsi in una norma per stringere un accordo con ciò che stava ad un passo, senza l'ambizione di conoscere. Un'abitudine, non molto. Una narrazione continua che potesse tenere assieme i pezzi. Ma non era possibile per semplici motivi costituzionali. Leggi interne che dettavano la rottura, tenendo aperta la ferita. Fugace, decomposto e frantumato, Rӧnne si scioglie nei pensieri per poi ricrearsi in una continua e faticosa evoluzione. Il mestiere di un artigiano della cera che lavora nella bocca di un vulcano.
Ma la necessità di superare la frattura sembrava essa stessa inscritta in quel principio di sopravvivenza caro agli animali. Ci si inventa l'arte - parola difficile –, l'unico artefatto capace di intuire la forza e fissarla in una forma. Rigore ed educazione a questa religione richiedevano una vita solitaria, silenziosa, capace di risvegliare l'attenzione affinché i pezzi frantumatisi potessero venir attaccati assieme. Questo è Cervelli. Questo è Rӧnne. Un buco pieno nel vuoto. Forse dovremmo dirla meglio avendo a che fare con dei medici: sutura, eseguita tecnicamente con doviziosa perizia, che cuce brandelli di carne, tenendo chiusa la ferita. Se la medicalizzazione possa venir paragonata alla parola poetica, non lo so, ma è pur sempre tecnica. Ma per fare ciò servono gli attrezzi giusti – bisturi! Già, ma qui l'operazione è un po' complessa – che fare? Inventiamo, metaforizziamo, creiamo ibridi: anche se morto, siamo pur sempre Dio, per quel che ci è concesso, con una corteccia cerebrale e un ipotalamo. E allora Edmée, la “parola del Sud” che dona resurrezione e fluidità; oppure blau – azzurro – da abbinare a visioni nuove come “un sacrilegio azzurro” o “azzurro di sfinge su neve e mare” . In fin dei conti, i due dottori – Benn e Rӧnne – si prendono cura di sé; edificano un mondo, si ricreano se stessi in essi e si salutano in un continuo divenire.


VINYL MANIA


Trentatré, quarantacinque, settantotto. Sono i giri che un vinile può fare piroettando su stesso. Questo piatto di gommalacca o in pvc allinea file d'amanti sin dagli anni cinquanta, quando i dischi da settantotto giri lasciarono pian piano spazio ai cosidetti microsolchi. Il vinile non è altro che una superificie circolare che dall'esterno verso l'interno è solcata da una spirale di musica. Ovviamente il numero dei solchi incide sul numero di giri al minuto che un piatto è in grado di fare. Abbassamento di giri corrisponde quindi a una maggiore durata d'ascolto per lato. La storia ci racconta come il vinile, originariamente, non fosse altro che parte di giocattoli parlanti. Solo successivamente, intorno al 1925, la Berliner gli diede l'ufficiale velocità nonché l'effige di settantotto giri. Ma fu la Columbia la prima a realizzare i dischi a doppia facciata, prodromo del modo di dire “B-side” che ancora oggi si utilizza per indicare un brano d'importanza minore, marginale, e quindi appartenente al lato B piuttosto che all'A del disco. Per essere precisi, è solo dal 1948 in poi che si dovrebbe parlare di vinile. Il termine, infatti, definisce letteralmente il solco di dimensioni minori che permette di avere un tempo di registrazione maggiore, e quindi una godibilità all'ascolto qualitativamente migliore. Con l'immediato dopoguerra, a metà del novecento, i dischi cominciarono a fiorire e a diffondersi maggiormente. Molte furono le case d'incisione italiane: la Carisch, la Parlophon, la Cetra, la RCA, la Voce del Padrone ecc. Tutti i più importanti artisti del novecento hanno inciso almeno un vinile, a partire da Elvis Presley, passando per Nilla Pizzi fino ai Noir Désir. Gli artisti italiani vincitori del Festival di Sanremo registravano i propri dischi e la gente amava ascoltare “Grazie dei fiori” su quel piatto nero che ruotava e ruotava, e veniva voglia di danzare. Come nei localini dell'est americano suonava sicuramente il rock di Chuck Berry o la brillantina di pailletes di Graceland. Oppure in qualche caffé di Montparnasse la voce di Edith Piaf s'alzava graffiante da una puntina di precisione. Il vinile piroettava un po' ovunque sui giradischi - nelle case o nei bar - gridando o sussurando dolcemente roteava con la gente. Il vinile non era solo un supporto svilito e trascurato, era un oggetto vero e proprio, era da toccare, aprire, mirare e rimirare. Con la sua copertina di cartoncino colorato, coi testi delle canzoni riportate sulla carta e infine lui, nero o colorato, bucato al centro, solcato da quel linguaggio incantato che è la musica. Sembrava fosse giunto il tempo del pensionamento, ma il vinile resiste a mo' di un Bartleby melvilliano.
Oggi risorgono dal letargo collezionisti e amanti del vintage, rifioriscono i negozi di musica (non più grazie all'ormai vecchio cd), rispuntano le fiere del disco brulicanti di banchetti pieni di casse quadrate. Woody Allen apprezza. Le ristampe degli storici sono frequenti, mentre la caccia alle rarità è troppo succulenta per gli appassionati. Vinili colorati, edizioni limitate, rarità, prime registrazioni, ve n'é per tutti i gusti. Ovviamente i prezzi variano di molto a seconda dell'anno di stampa del vinile e dall'artista. Per fare un esempio, si passa dalla prima edizione di Love Buzz dei Nirvana al prezzo di 1.732 euro, a The Wall dei Pink Floyd del 1979 a 20 euro. Collezionismi a parte, i vinili oggi riconquistano tutti gli amanti della musica che cercano una soddisfazione maggiore, un gusto e una fruibilità che non sia solo via etere e facilmente decomponibile. Sfogliare un vinile, accarezzarne la copertina e i solchi con la mano, vederlo girare sul piatto, andarlo a cercare per mercatini e fiere, soddisfano quei sensi che difficilmente oggi trovano appagamento. Sono molti i gruppi di successo contemporanei che registrano in vinile ma numerose anche le riedizioni degli storici successi, come l'edizione colorata limitata dell'intera discografia di Fabrizio de André. Emozioni. (Date un occhio a www.vinili.com).

IL PIU' GRANDE BASSISTA DEL MONDO

Il 21 settembre 1987 Jaco Pastorius moriva all’ospedale di Fort Lauderdale, dopo alcuni giorni di coma. Circa dieci giorni prima, dopo essere stato cacciato da un concerto di Santana per una

“invasione di palco”, si era diretto verso un altro locale. Non vollero farlo entrare. Lui insistette, gridò, prese a calci e pugni la porta. Il buttafuori prese a calci e pugni lui, ammazzandolo letteralmente di botte. Si chiudeva così una parabola umana e artistica tanto problematica quanto rivoluzionaria.
Jaco Pastorius entra in collisione con il mondo della musica jazz negli anni settanta. Suona il basso elettrico, ma non lo fa come gli altri. Per ottenere un sound peculiare ha tolto i tasti dal manico, e quando ci mette le dita inventa cose inaudite. Suona contemporaneamente armonici, accordi, ritmica, melodie. Con una tecnica spaventosa, unisce tutte le potenzialità del basso in una maniera che nessuno, fino a quel momento, aveva pensato possibile, affermandolo come strumento solista e non più di mero accompagnamento.
Nel 1974 esce il suo primo album, autointitolato. Un lavoro acclamato dalla critica, dove spiccano composizioni come A Portrait Of Tracy (un assolo basato sugli armonici), Donna Lee (una reinterpretazione per basso e congas del brano di Miles Davis) e Come On, Come Over, che con gli anni diventeranno dei classici.
Nello stesso periodo, Pastorius entra in contatto con Joe Zawinul, leader dei Weather Report, band che da qualche anno sta reinventando il jazz inserendovi elementi funk e rock, creando di fatto quel genere chiamato poi “fusion”. La leggenda vuole che al loro primo incontro Jaco si presenti come “il più grande bassista del mondo”. La replica di Zawinul è secca: “levati dai coglioni”. I due restano comunque in contatto (Zawinul dirà poi che Jaco gli ricordava sé stesso da giovane), e quando i Weather Report rimangono senza bassista, la scelta ricade naturalmente su Pastorius.
La band di Zawinul sarà per Jaco un trampolino di lancio: la sua straordinaria bravura, le sue capacità compositive – già mostrate sull’album solista – e la sua attitudine sul palco lo rendono in breve una star del jazz. L’album Heavy Weather del 1977 diventa una pietra miliare (oltre che un successo commerciale) grazie anche al suo apporto innovativo, che rende memorabili pezzi come Birdland e Teen Town.
In pochi anni, però, la situazione cambia radicalmente. Jaco comincia a fare uso di droghe e alcol (forse per la notorietà, forse per la crisi del suo matrimonio), e adotta comportamenti sempre più bizzarri. Zawinul si stanca della sua attitudine da primadonna sul palco, e il loro legame, quasi un rapporto padre-figlio, si incrina.
Weather Report (1981) è l’ultimo album di Pastorius con la band di Zawinul. Questi si è imposto come regista assoluto, e Jaco sfoga la sua inventiva nell’album solista Word Of Mouth del 1982, dove si concentra maggiormente su composizioni e arrangiamenti, senza dimenticare il suo eclettismo al basso (vedi l’adattamento di Bach in Chromatic Fantasy). Lasciare i Weather Report è un passo quasi obbligato; quindi Jaco tira in piedi la Word Of Mouth Band e intraprende un tour in Giappone.

L’aneddotica su questo tour, vera o falsa che sia, si spreca: Jaco si presenta sul palco con la faccia pitturata e la testa rasata; spesso non suona ma corre e fa capriole; guida una moto nudo e viene arrestato. Al suo ritorno gli viene diagnosticato un disturbo bipolare, da curarsi con litio. Ma le sue condizioni mentali peggiorano, aggravate dall’abuso di alcol. Diventa violento, e le sue performance sono così disastrose che nessun locale lo vuole far suonare, nessuna casa discografica gli offre un contratto.
Negli anni che seguono è sempre più solo e incontrollabile, e vagabonda per lunghi periodi dormendo per strada. Nel 1986, per interessamento dell’ex moglie e del fratello, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, ma dopo poche settimane è di nuovo fuori. La fine, a soli 35 anni, è nota.
Il segno lasciato da Jaco Pastorius nel mondo della musica è indelebile, e oggi l’importanza del suo contributo è universalmente riconosciuta. Come per altri famosi “matti” dell’arte, anche per lui il disturbo mentale non è stato quel soffio divino che volevano gli antichi, bensì un istinto distruttivo che l’arte stessa cerca di arginare, o meglio di instradare in opere così ardite e innovative da sembrare folli. La fascinazione per queste personalità non è che un retaggio romantico, l’invidia di una forma alternativa di libertà che in realtà è sofferenza e disagio. Ma quello che rimane, quello che conta davvero, è ciò che possiamo ancora ascoltare e ammirare.

Giuseppe Nava