SONGS OF LEONARD COHEN (1967)

Nel 1967, quando pubblica il suo album d’esordio, Leonard Cohen ha 33 anni. Non è il classico ragazzo pieno di sogni che vuole diventare una star: ha già pubblicato tre raccolte di poesie e due romanzi, è famoso nei circoli letterari canadesi, e ha vissuto diversi anni sull’isola greca di Idra in una sorta di auto-reclusione, in cerca di solitudine. Fin da ragazzo suona canzoni folk alla chitarra, ma è solo dietro l’insistenza dell’amica cantante Judy Collins che decide di esporsi in prima persona e registrare un album.
Il risultato è un autentico gioiello. Le dieci canzoni di Songs of Leonard Cohen sono velate di una sottile depressione, e parlano di relazioni fallimentari, dell’impossibilità dell’amore, dell’incapacità di adattarsi a una vita incomprensibile nei suoi meccanismi. Gli arrangiamenti minimali contribuiscono a creare un’atmosfera spettrale in cui emerge il cantato dimesso e monocorde di Cohen, che si accompagna con la chitarra (il suo stile verrà poi ripreso anche da Fabrizio De André, che anzi inciderà versioni italiane di Suzanne, Joan of Arc e Seems So Long Ago, Nancy).

In controtendenza rispetto alle attitudini politiche dei cantautori suoi contemporanei, Cohen si concentra sull’individuo. L’uomo che presenta al mondo è un uomo insicuro, che cerca amore e comprensione pur essendo consapevole di non essere a sua volta capace di darne. In questo senso è emblematica Suzanne, la donna mezza pazza che vive in riva al fiume:

And just when you mean to tell her
that you have no love to give her
then she gets you on her wavelength
and she lets the river answer
that you've always been her lover

Suzanne assume tratti magici, quasi religiosi, tanto che l’uomo vorrebbe seguirla “ciecamente”. Un simile conforto (con un simile, seppure ironico, parallelismo religioso) lo può trovare nelle Sisters of Mercy, ovvero le prostitute, la cui “misericordia” non richiede impegno, stabilità, fedeltà. Da queste persone ai margini, l’uomo di Cohen intuisce, o spera, di poter imparare qualcosa:

And she tells you where to look
among the garbage and the flowers
(Suzanne)

And they brought me their comfort
and later they brought me this song
(Sisters of Mercy)

Già, imparare. Cercare una comprensione più profonda. Anni dopo Cohen passerà un lungo periodo in un monastero buddista in America, alla ricerca di una nuova coscienza delle cose. Ma verso la fine degli anni sessanta, in quel periodo di grandi cambiamenti sociali e culturali, mettere in discussione i valori – morali, politici, religiosi – comporta la perdita di “maestri”, e la conseguente ricerca di nuove guide, di nuovi punti di riferimento. La parabola di Teachers ben rappresenta lo spaesamento di un uomo che cerca invano i “teachers of my heart”. La canzone è una sorta di nenia, a cui il rapido arpeggio alla chitarra aggiunge una sensazione di ansia; come un grido disperato ma subito represso quando a ogni domanda l’uomo si sente rispondere “no”:

Several girls embraced me, then
I was embraced by men,
is my passion perfect?
No, do it once again.
I was handsome I was strong,
I knew the words of every song.
Did my singing please you?
No, the words you sang were wrong.

Così pure il rapporto uomo-donna diventa tragicamente problematico. L’amore va e viene come il mare nella tenera Hey, That’s No Way to Say Goodbye; ma se può diventare qualcosa di simile alle catene, qualcosa che non si può slegare, è meglio lasciar perdere (“let’s not talk of love or chains or things we can’t untie”). Anche per via di una innata incapacità di comunicare che affligge ogni relazione:

I believe that you heard your master sing
when I was sick in bed.
I suppose that he told you everything
that I keep locked away in my head
(The Master Song)

Your letters they all say that you're beside me now.
Then why do I feel alone?
(So long, Marianne)

Senza urla laceranti o momenti epici, l’uomo di Cohen si trascina nella vita con un parlare sommesso, guardando e studiando l’uomo e il mondo con una lucidità che lo rende per certi versi vicino al Bernardo Soares di Pessoa. Infatti, se Bernardo Soares viene definito da Tabucchi come “l’uomo alla finestra”, Cohen si autodefinirà, in una canzone del 1969, “a bird on a wire”, un uccello sul filo; rivendicando non tanto una distanza dalla vita, ma piuttosto la libertà di vederla e interpretarla. Non senza un’amara ironia, che ritorna spesso nelle canzoni e di cui è uno splendido esempio il surreale racconto di One of Us Cannot Be Wrong che chiude l’album:

I showed my heart to a doctor
he said I’d just have to quit
then he wrote himself a prescription
and your name was mentioned in it
then he locked himself in a library shelf
with the details of our honeymoon
and I hear from the nurse that he’s gotten much worse
and his practice is all in a ruin.

Oggi Leonard Cohen è un vecchietto che, a dispetto dei suoi quasi ottant’anni, gira il mondo per fare concerti. Ha proseguito la carriera musicale senza perdere lo sguardo disincantato e profondo che lo caratterizza. Ma per l’insieme sorprendente di canzoni drammatiche ed emozionali, capaci di scandagliare gli angoli bui della coscienza, questo suo esordio rimane inarrivabile. Utilizzando poco altro oltre alla chitarra e alla propria voce, disegna un desolato paesaggio umano che trascende il suo tempo e tende all’universale, senza arroganze o eccessi profetici, ma con la dimessa eppure sentita partecipazione di un uomo che vive sulla sua pelle quello stesso mondo.

Giuseppe Nava

I MANGIATORI DI PATATE - VAN GOGH

I mangiatori di patate è un dipinto ad olio su tela di cm 82 x 114 realizzato nell'aprile del 1885 dal pittore olandese Vincent Van Gogh, ed è conservato al Museo Van Gogh di Amsterdam. Questo dipinto mostra, all'interno di una povera stanza, alcuni contadini che consumano il pasto serale servendosi da un unico piatto di patate, mentre una di loro sta versando il caffè. Van Gogh è molto legato a questo soggetto in quanto si sente come "uno di loro". I contadini, come lui, soffrono, ed egli trova ingiusto il fatto che nonostante tutti i loro sforzi ed i loro sacrifici debbano vivere in modo così misero. Viene sottolineata la continua fatica fisica di chi ha consumato, giorno dopo giorno, la propria vita nel lavoro dei campi. Per questo motivo l'artista è come se volesse esaltare il cibo dei poveri. Van Gogh stesso esprime un suo pensiero riguardo a questo quadro da lui così sentito: “Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole”. La luce, provenendo dall'alto e colpendo perciò soltanto alcune parti, provoca contrasti chiaroscurali e accentua la caratterizzazione dei volti, delle mani, degli abiti. Singolare è la rappresentazione del volto e delle mani dipinti in modo caricaturale: con questo il pittore vuole esagerare e intensificare la realtà. Questo fu un dipinto in cui Van Gogh, soddisfatto del risultato, si identifica appieno, tanto che se ne priva e lo lascia in consegna a Anton Kerssmakers, pittore dilettante, per non cedere alla tentazione di ritoccarlo, progettandone l'esposizione a Parigi, prevedendone la presentazione, la cornice, la tappezzeria di sfondo, un progetto che, come tanti altri della sua vita, non si avvererà mai. Nell’opera c’è una evidente partecipazione affettiva di Van Gogh alle condizioni di vita delle persone raffigurate. La serietà con cui stanno consumando il pasto dà una nota quasi religiosa alla scena. È un rito, che essi stanno svolgendo, che attinge ai più profondi valori umani. I valori del lavoro, della famiglia, delle cose semplici ma vere (di quel tempo e anche di oggi).

BEAT VERSUS CHELSEA


Beat versus Chelsea Hotel. Parigi e New York. Alberghi e luoghi divenuti oramai mitici grazie alle persone che hanno attraversato i loro lunghi corridoi e soggiornato nelle loro stanze. Nel Quartiere Latino, al numero 9 della stretta rue Git-le-Coeur si trovava il Beat Hotel, un piccolissimo alberghetto misero - il quale pareva abbandonato -, che deve il suo nome agli avventori che tra gli anni Cinquanta e Sessanta vi si stabilirono per scrivere un pezzetto di storia della letteratura. L'hotel, infestato dai topi che s'aggiravano con fare furtivo per l'andito, era gestito da Madame Rachou, una vecchina che si vide passare d'avanti agli occhi “les américains”, i poeti americani della Beat Generation, per lo più squattrinati (non tutti), giunti ad assaporare la tradizione del continente in anni di intensa attività artistica. Proviamo col citare l'opera che porta il nome del mitico alberghetto: Beat Hotel, il romanzo di Norse scritto con la tecnica del cut-up (sorta di collage tra vari scritti). Invece, tra quelle pareti spoglie, Allen Ginsberg attese la sentenza del processo per oscenità del suo Urlo, e in seguito vi scrisse Kaddish. Il suo amico Gregory Corso, anche lui accampatosi lì, diede alla luce la poesia Bomb. Nella ville de Paris William S. Burroughs finì il suo Pasto nudo, mentre rimane ancora qualche dubbio sulla presenza o meno di Kerouac nell'Hotel.
Di tutt'altro genere è il Chelsea Hotel, fondato nel lontano 1884. Situato al 222 West 23rd Street, Manhattan, tra la Seven e l'Eight Avenue, è un edificio imponente che affascina per l'altezza ed il colore rosso mattone. Ha ospitato artisti quali i già citati William S. Burroughs, Allen Ginsberg e Gregory Corso, Janis Joplin, Patti Smith, Leonard Cohen, Robert Mapplethorpe e le Chelsea Girl (Edie Sedgwick, Viva, Ultra Violet, Candy Darling) di Andy Warhol, ma solo per citarne alcuni. In questo albergo Arthur C. Clarke scrisse quel capolavoro di 2001 Odissea nello Spazio, e Bob Dylan trovò l'ispirazione per comporre Sad Eyed Lady of the Lowlands. Ma oltre alle creazioni artistiche, il Chelsea hotel fu teatro di morte. Dylan Thomas vi morì per eccesso di alcool, mentre Sid Vicious avrebbe accoltellato Nancy Spungen il 12 ottobre 1978.
Muse ispiratrici di numerose opere, questi due hotel diedero riparo e accoglienza - come fossero delle seconde case - ad artisti dediti alla vita bohémien.