BALMORHEA

Una serata molto particolare e al tempo stesso una novità per la città: il 29 ottobre il Tetris di Trieste, locale oramai famoso per i concerti e la musica live, ci ha regalato i Balmorhea. Il gruppo texano, più precisamente di Austin, sono un complesso definibile “post-classical”, termine che non ci aiuta molto ma che vuole racchiudere un genere con influenze di musica classica combinate ad elementi e sonorità vicine al rock e al folk. Il gruppo, dopo i primi tre lavori contraddistinti da sperimentazioni sonore e formazioni strumentali diverse, ha pubblicato l’ultimo album Constellation. Il lavoro è incentrato principalmente sul suono, una sorta di evoluzione del suono che ha portato il gruppo ad elaborare melodie profonde ed intense nelle quali gli stacchi strumentali sono alternati a momenti di pausa o quasi silenzio, un disco riflessivo e profondo che lascia trasportare e lascia spazio all’immaginazione. I Balmorhea, in tour per il loro ultimo album, si sono presentati presso il locale triestino con una formazione di tre archi, un batterista e due chitarristi che si alternavano tra pianoforte e banjo. Il concerto stesso può essere considerato una sorta di esperimento in relazione alla difficoltà di trovare un gruppo di questo genere in città, quindi è sicuramente da apprezzare l’idea degli organizzatori. Il gruppo stesso, di fronte a un locale affollato ma che non registrava il tutto esaurito, ha proposto più pezzi del loro ultimo lavoro ma senza trascurare le sperimentazioni passate; in tal modo la proposta musicale è stata molto varia, sono state eseguite composizioni molto lente e melanconiche nelle quali il piano si poneva come primo protagonista, ad altre tracce più complesse ed elaborate, nelle quali venivano esaltate e mescolate le peculiarità dei vari strumenti riuscendo a creare una musicalità particolareggiata, lontana nel tempo e capace di creare situazioni suggestive e romantiche; ogni singolo elemento…. dal violino, al contrabbasso, al banjo e via dicendo erano tutti distinguibili nelle composizioni, si alternavano vicendevolmente e si accompagnavano a qualche lamento o a qualche attimo di silenzio riuscendo a ritagliarsi il proprio momento di evidenza. Canzoni quali Remembrance, Bow Spirit, Settler e Baleen Morning rappresentano in tutto e per tutto la musica dei Balmorhea oltre a rappresentare le evoluzioni musicali di questo complesso e hanno il pregio di riuscire a comunicare con la musica senza la necessità delle parole. L’atmosfera creatasi grazie alle melodie del gruppo texano, è riuscito a coinvolgere un pubblico variegato che ha ascoltato attentamente ed ha apprezzato la performance dei musicisti e si è lasciato conquistare e trasportare dalla musica del gruppo, il quale è riuscito nell’intento di rievocare i posti sperduti di un’America rappresentata come spazi infiniti interrotti da praterie e lande remote dove l’occhio non riesce mai a vedere un punto di arrivo, dove i silenzi sono rotti da echi, lamenti e da rumori quasi impercettibili, immagini di una realtà lontana che viene rievocata attraverso la musica di questo gruppo. Un grazie di cuore al gruppo di Austin.
Per conoscere meglio i Balmorhea:

I GATTI PERSIANI

Due ragazzi, lui tastierista e lei cantante, cercano altri musicisti per formare una band pop rock. Vogliono suonare le loro canzoni, avere successo, andare all’estero, a Londra magari. Fin qui niente di nuovo. Ma se mettiamo i due ragazzi in uno stato dittatoriale e religiosamente integralista, dove chi non suona la musica “consentita” finisce in carcere per due o tre mesi e si vede confiscati gli strumenti, allora la prospettiva cambia. Ashkan e Negar sono i protagonisti di questo film iraniano del 2009, vincitore del premio speciale della giuria al Festival di Cannes. Nella loro ricerca di una band i due si imbattono in Nader, un maneggione logorroico che per campare vende dvd pirata, e che ha molte conoscenze nell’underground musicale di Teheran. Nader accompagna i due ragazzi (e noi spettatori) tra vicoli tortuosi e sale prove imboscate; loro alla ricerca di componenti per formare il gruppo, e noi alla scoperta del mondo musicale giovanile di un paese controverso come l’Iran. Le diverse situazioni presentate sono sorprendenti, a volte grottesche, come il gruppo (che suona come i Mars Volta) che per provare senza rischi deve aspettare che un vicino esca a passeggiare; oppure i metallari che suonano in una stalla, tra il fieno e le mucche, perché non trovano altro posto per provare. La cosa simpatica è che per ogni band c’è lo spazio di una piccola esibizione, durante la quale il film si trasforma in una sorta di videoclip dove la musica accompagna le immagini della città e dei suoi abitanti. Tra una canzone e l’altra la storia prosegue con il tentativo di organizzare un concerto (ovviamente illegale) per raccogliere i soldi necessari al pagamento dei passaporti (falsi), unico modo possibile per lasciare il paese. Il risultato è notevole, soprattutto se si pensa che il film è stato girato in clandestinità, senza permessi (pare che il regista Ghobadi abbia corrotto con dei dvd illegali alcuni poliziotti, per chiudere un occhio durante le riprese in esterno). La videocamera spesso segue i tre protagonisti in stanze piccole e buie, attraverso scale e corridoi contorti, e vie piene di saliscendi e di curve, come a dimostrare simbolicamente la difficoltà del percorso di quei ragazzi che per un sogno si mettono contro all’autorità. I toni sono comunque leggeri, fino all’improvviso e inaspettato epilogo. L’urgenza dei musicisti rappresentati e de I gatti persiani è la stessa: dimostrare come si può resistere a chi vorrebbe limitare ogni libertà, e documentare questa resistenza attraverso il proprio lavoro e il proprio impegno. Loro ci credono davvero. Anche se può sorprenderci che qualcuno debba lottare e rischiare per ottenere quello che invece per noi è immediato e disponibile, dobbiamo ricordarci che la libertà non è né gratis, né scontata. Un film come questo può esserci d’aiuto.

RIFLESSIONE DISORDINATA SU PARIGI - OGGI

Comincio col dare delle spiegazioni. Ho tradito, lo so, questo mese non ho scritto nessun articolo d'interesse culturale. Vorrei semplicemente condividere delle riflessioni smodate e disordinate, perchè ho l'esigenza di farlo. Mi ritrovo a Parigi, la città che ho sognato per tanto tempo, la città che ho riempito di nomi e immagini, la città che aspettavo di perquisire. Non nascondo l'imbarazzo e il colpo di forza che mi ha vomitato solitudine non appena messo piede sulle strade soleggiate di fine settembre. Ti guardi intorno e ti perdi. La realtà si confonde con l'immaginazione, la voce di Serge Gainsbourg ti segue passo dopo passo mentre attraversi le strade riscaldate dai caffè e dai calici di bordeaux frantumati a terra, perchè un vecchio ubriacone barcollando ha urtato il cameriere. Dall'altra parte della strada una giovane ragazza con un berretto nero ficcato sugli occhi e un bicchiere di carta in mano, chiede silenziosamente dei soldi e riconoscimento, si rifugia poi nella metro, la casa dei topi, la fogna che ogni giorno attraversiamo insozzandoci di facce spigolose e occhi bianchi che fissano oltre il buio, scrutano l'orizzonte ma si perdono dentro i rumori assordanti di cuffie da i-phone. Montmartre riversa l'immondizia sulle sue vie, e la chiesa ammutolita è invasa da ballerini domenicali di hip-hop. Culti sacri del profano, turisti confusi nel seguire piantine con gli occhi all'ingiù, non si accorgono delle foglie che cadono dagli alberi ma cercano con spasimo l'immagine memory che corrisponde alla loro guida turistica per, prontamente, fotografarla. Il fiume continua a scorrere, e gli anziani "umarells" giocano a bocce calcolando la geometria del pallino. La gente si perde, il tempo si perde, la vita si perde. Corri veloce e poi vedi un uomo che piange e si fa consolare, vedi un uomo che si è fatto la pipì addosso ed è solo. La città non li vuole mostrare, ma loro ti sbattono in faccia la vita. Tu devi osservarli, ci entri dentro e forzatamente ridimensioni. Tutto è allo stesso modo vano, l'annichilimento della realtà come la sua forza bruta. Il tempo si dilata e restringe il fiato, l'aria manca nell'inscatolamento quotidiano della latta rotante. Lo spazio si comprime dentro luoghi apparentemente giganteschi, ma opera dell'ingengo umano teso a riprodurre una distanza che manca, e che non si trova. La vita intera sembra prendere un vicolo più colorato e sonoro ma per questo ovattatto e protetto, fintamente isolato dal malessere sociale ma più fragile nell'istante in cui li si staccherà la corrente. L'intero globo viscido si trascina per le strade inseguendo sogni non desiderati, non conosce il piacere se non quello di assumere su di sé volontà abortite dal potere e ben aderenti al sonno. L'uomo che crede d'essere dentro se stesso, crolla. L'uomo che corre dietro al coniglio si perde non appena le luci si spengono, non trova l'interruttore, barcolla silenzioso. L'uomo a nessuna dimensione. Perché piatto più di un foglio di carta, è ripiegato nell'abisso che alimenta quotidianamente. L'uomo è solo, ma non con se stesso. Si guarda intorno ed è solo.

IL SAN GIOVANNINO DI LEONARDO


Perdersi per i lunghi corridoi del Louvre, inseguendo lento i tappeti rossi. L'occhio viene naturalmente catturato da quel buio cosmico per una questione fisiologica nascosta nell'ipotalamo. Ed emerge lenta la figura del Giovannino. Appare in un momento, come un'epifania. L'occhio fatica a coglierlo tra le velature dello sfumato leonardesco. I contorni vaghi. I confini della forma che si perdono nella dimensione. “Ciò che non ha termine non ha figura alcuna”, scrisse Leonardo. Il Giovannino appare in un equilibrio in dissolvenza, teso in un movimento a spirale che trova la sua realizzazione ultima nell'indice della mano destra. Gli studi di fisica di Leonardo sui vortici. L'angelo della Vergine delle Rocce.
Per motivi di sopravvivenza lo sguardo cerca gli occhi del santo che si scoprono fissare divertito, conscio dell'esperienza in bilico sul presente. Così si scende sulla bocca per sentirne la voce. E lui ride ambiguo in un trionfo illuminato di certezza. Monna Lisa.
Si scende cercando di seguirne il movimento, la spalla, la curva del braccio, e scopri un androgino del mito platonico che supera il genere. E lo si insegue mentre ruota verso l'alto, proteso al vertice della spirale, su quel dito spiegato a indicare ciò che sta oltre. Ciò che non si può mostrare o nominare.
 Negli ultimi istanti dell'epifania si tenta di coglierne i particolari sfuggiti nella ressa, turbati dal magnetismo, catturati nel vortice della leggera fisicità: i riccioli folti, il corpo cinto con una pelliccia. Finché sfuma il momento della rivelazione di un enigma taciuto e al contempo svelato, e con lui il messaggero profetico.

LAST NIGHT

Last night il film d’apertura del festival internazionale di Roma, dopo aver fatto molto parlare di sé è finalmente in tutte le sale italiane. Opera prima della regista Massy Tadjedin - americana di origine iraniana - la quale porta sullo schermo le trentasei ore di una coppia innamorata con una pellicola dai toni spiccatamente melodrammatici. Michael e Joanna sono una coppia felicemente sposata, stanno insieme dai tempi del college, lui progetta ristrutturazioni di immobili, lei cerca di riprendersi dal blocco dello scrittore dopo il successo del primo libro. I due sposini conducono una vita agiata nel loro costoso appartamento e ricalcano il perfetto quadro borghese di una giovane coppia. Joanna, interpretata da una sorprendente Keira Knightley, durante una cena di lavoro viene turbata dalla complicità del marito manifestata nei confronti di Laura, sua nuova seducente collega (Eva Mendes). In Joanna prende forma una profonda gelosia che la porta ad affrontare Michael, il quale le confessa l’innocente attrazione provata per la ragazza. La regista mostra particolare cura nel rappresentare il nido d’amore della coppia e impostando da qui le pieghe che prenderanno gli sviluppi futuri del lungometraggio, lasciando aperta la porta del dubbio. La mattina seguente Michael, interpretato dal protagonista di Avatar Sam Wortinghton, si reca a Philadelphia per lavoro in compagnia della bellissima Laura. In Michael nasce la fantasia di concedersi a quell’infedeltà accusata dalla moglie. Aumenta di conseguenza l’attrazione sperimentata da lui verso Laura. Joanna rimasta a New York per cercare di scrivere il libro si imbatte in Alex (Guillame Canet), un vecchio amore. Un attimo e la passione si riaccende.
Last night indaga il gioco di coppia, mostra due punti diametralmente opposti che danno vita a tradimenti e bugie coperti da un velo di ipocrisia il quale sembra caratterizzare la relazione di coppia. Joanna deve affrontare un amore mancato, e rivive la forte passione trascorrendo la notte con Alex sullo sfondo di una fascinosa New York guardiana dei segreti più profondi dei propri abitanti. Non si può fare a meno di notare la forte presenza della musica del compositore inglese Clint Mansell, la quale sottolinea maggiormente, attraverso le proprie cadenze poetiche, l’entropia dei sentimenti, quale ingrediente segreto di questa sublime pellicola. Massy Tadjedin ci mostra gli sviluppi delle due storie che su due piani diversi svelano l’intricato e irrazionale mondo della relazione di coppia. I “saldi” principi di Michael invece vengono minacciati e tentati dalle attenzioni della avvenente collega, che su quel versante si dimostra essere più libera, confondendo il protagonista, e conducendolo ad uno smarrimento di identità. Qui il tradimento è imperniato dalla carnalità al contrario di quello di Joanna che riflette il sentimento profondo, caratterizzato dall’impossibilità dell’appagamento. Cast d’eccezione e tutti all’altezza dei propri ruoli, soprattutto per la giovane Keira la quale incarna magnificamente il ruolo della giovane moglie perfettina costretta ad affrontare l’imprevedibilità del destino.

LASCIAMI ENTRARE

Lasciami entrare è un viaggio intimo che ci guida alla conoscenza di un vampiro a cui non viene data la solita rappresentazione di un essere malvagio, ma l’immagine di qualcosa di fragile e delicato. Qua nasce la necessità di scegliere un soggetto che nella vita umana non aveva ancora raggiunto la sua piena maturazione e stabilità. Dodici anni è l’età giusta per descrivere questo stato di incertezza. La protagonista ha dodici anni da ormai troppo tempo e l’unica cosa che sa è cosa non è: una ragazza. Convive con una realtà violenta che non le appartiene, ma a cui non c’è nessuna via di uscita, se non quella di stare a stretto contatto con la cattiveria repressa della natura umana, che per lei diventa la spinta per continuare a sopravvivere in questa sua ripetitiva esistenza al di fuori della storia. Lasciami entrare è anche il racconto della vita di un dodicenne solitario che cerca pian piano di crearsi un suo mondo, lontano dalle incomprensioni familiari e da quelle con i suoi coetanei. Per questo motivo si nasconderà all’interno di un’amicizia che non ha pretese e che pian piano lo farà evadere dalla sua realtà terrena. Lasciami entrare parla del modo in cui due entità opposte, come la candida neve e il turgido sangue, si possano incontrare e fondere assieme all’interno di una fredda e pittoresca Stoccolma.