VIA DALL'UNIVERSITÀ!

Questa attualmente è un’esclamazione tutt’altro che insolita: molti studenti decidono di abbandonare il percorso universitario a causa di piani di studio che risultano poco specifici perché mancano di materie caratterizzanti. Stiamo frequentando un’Università dispersiva, che non sempre offre una preparazione adeguata. Cosa succede a monte, perché i corsi di laurea non riescono ad essere all’altezza dell’offerta formativa? Parlando nello specifico dell’Università di Trieste, essa è una delle Università che superano il 90% del rapporto tra il Fondo di Finanziamento Ordinario e gli stipendi: in breve, ha dei problemi finanziari. Da anni ormai i concorsi sono rarissimi, e la situazione sarà portata al limite dai nuovi tagli all’istruzione, a causa dei quali non sarà più possibile bandire concorsi. Questo è un problema grave: molti degli insegnamenti caratterizzanti dei corsi di laurea sono tenuti da docenti anziani che, una volta in pensione, non verrebbero sostituiti. Dato che i docenti ordinari sono sempre meno e che l’Università non può permettersi un numero enorme di docenti associati, per l’offerta formativa ci si è basati sulla disponibilità dei ricercatori, che non sono in realtà tenuti ad insegnare, ma possono decidere di farlo per condividere con gli studenti la loro ricerca. Attualmente, in molte Facoltà, i ricercatori sono adibiti all’insegnamento per soddisfare l’offerta didattica promessa da un corpo docente che non può assicurarla. Così, dato che il ddl Gelmini toglierebbe ulteriori soldi alla ricerca e ignorerebbe i criteri di meritocrazia (che sarebbero invece utili a ridurre gli sprechi dell’Università e a premiare i ricercatori più produttivi, penalizzando quelli che non pubblicano nulla), i ricercatori hanno deciso di sospendere l’insegnamento per il corrente anno accademico, fino a data da destinarsi. Il risultato è stato un putiferio: l’attività didattica e i piani di studio sono nel caos, moltissimi corsi sono stati cancellati e non si sa ancora come verranno recuperati. Così l’intero Ateneo ha sospeso simbolicamente per mezz’ora ogni attività didattica “per richiamare l’attenzione collettiva sulle questioni poste dalla riforma universitaria”, mentre le Facoltà che hanno più ricercatori che docenti hanno deciso di sospendere la didattica per intere giornate, in modo da evitare che metà dei corsi partissero e metà no, e nei suddetti giorni hanno organizzato degli incontri informativi a proposito del decreto. Il Dipartimento più attivo è stato quello di Scienze naturali, fisiche e matematiche: esso ha sospeso l’attività didattica per due settimane e poi ha presidiato la Facoltà per otto giorni, invitando Margherita Hack ad una conferenza per attirare l’attenzione degli organi d’informazione sulla protesta. L’ottimo risultato del Dipartimento è stato ottenere che venisse discusso il documento presentato al Rettore, in cui si richiedeva una maggiore rappresentanza studentesca all’interno degli organi di Ateneo e un simposio con tutte le Facoltà per elaborare insieme le linee guida di un’eventuale riforma alternativa. Inoltre in quei giorni gli studenti e ricercatori del Dipartimento hanno pubblicato un filmato su youtube per diffondere i motivi della protesta. Invece Lettere e Filosofia in appoggio ai ricercatori ha sospeso la didattica dall’11 al 15 ottobre organizzando in quei giorni un ciclo di seminari ed incontri aperti al pubblico a proposito della riforma dell’Università, corsi alternativi a quelli previsti dalla didattica, e varie iniziative, la cui più degna di nota è stata la lettura di massa in piazza Unità. Giovedì 13 ottobre infatti una cinquantina di studenti sono scesi in piazza con un libro in mano, leggendo ad alta voce in mezzo alla gente, cosa che ha stupito e incuriosito i passanti. A chi si fermava a chiedere i motivi di questo gesto, gli studenti davano informazioni a proposito della riforma universitaria. Lo stesso giorno, sempre per dare un messaggio forte ai passanti, le tre statue degli autori Svevo, Joyce e Saba sono state ricoperte da dei sacchi neri e da cartelli “Manteniamo la Facoltà di studiarli!”. Lunedì 25 ottobre gli studenti hanno ottenuto di partecipare all’Assemblea di Facoltà, e hanno fatto delle richieste attraverso una lettera in cui pretendevano chiarezza da parte dei professori e della Preside in merito alla protesta (molti docenti hanno continuato a fare lezione anche se i corsi erano sospesi, e non si è fatto niente per evitarlo) e un impegno da parte dei professori di recuperare i corsi tenuti impropriamente. Nelle prossime settimane gli studenti di Lettere organizzeranno altre attività per sensibilizzare l’opinione pubblica: si inizierà con il ripetere la lettura in piazza, dove ognuno porterà un libro e inizierà a camminare leggendo ad alta voce. La prossima sarà organizzata giovedì 28 ottobre dalle 17.30 alle 21.30 in piazza Unità. Partecipate numerosi! Che siano Orwell, Miller o Raboni, dobbiamo tenerci stretta la Facoltà di studiarli.

Alessia Dagri

DA PORTSMOUTH A FORT-DE-FRANCE

L’immaginazione può essere d’aiuto fino a un certo punto ma la sensazione di attesa aumenta nervosamente più ci si avvicina al porto. Poi basta arrivare al cancello al di fuori del terminal, esibire i documenti, seguire le linee gialle che indicano la via verso l’imbarcazione tra un labirinto di pallet, container e gru… e ritrovarsi a risalire una scaletta metallica che porta dalla banchina fino al ponte di coperta. Primi saluti e prime presentazioni di rito e poi si comincia la rampa di scale tra i vari piani che portano alla cabina con vista sulle stive e sui container antistanti. Bisogna un po’ prendere le misure ed abituarsi, il cambiamento non è da poco… Letto con protezioni in legno anti-caduta, divanetto, un tavolino, una sedia, un armadietto metallico e un appendiabiti, tutti combinati in una stanza di tre metri per due e mezzo.
Il ritmo di vita a bordo è scandito da orari di lavoro rigidi e predeterminati, in porto si lavora sei ore sì e sei ore no, una volta partiti invece, vengono applicati i turni di lavoro “normali” e quindi i marinai hanno tempo di riposarsi (salvo imprevisti come tempeste o avarie al motore). L’abbandono della terra ferma e il progressivo allontanarsi della costa è una sensazione strana in quanto vengono a mancare i punti di riferimento. Più si va ad ovest e più ci si immerge nel blu e nelle sue sfumature che variano di continuo a seconda dell’ora del giorno e delle condizioni meteorologiche, man mano che ci si allontana, scemano anche le possibilità di contatto con la terraferma quindi si resta completamente coinvolti dalla vita e dalle attività di bordo; colazione dalle sette e mezza alle otto e mezza, il pranzo dalle undici e mezza a mezzogiorno e mezza e la cena dalle cinque e mezza alle sei e mezza; tutto organizzato in modo tale da permettere di mangiare a seconda dei vari turni di lavoro. La sera invece, per chi non lavora, è il momento per guardare un film, leggere un libro, fumare una sigaretta, stare in compagnia o semplicemente starsene chiusi in cabina; poi la notte si cerca di dormire ma all’inizio non è facile, le onde, le vibrazioni ed il rumore della sala macchina si fanno sentire fino ai piani superiori e le notti insonni si susseguono prima di abituarsi.
Le nazionalità a bordo sono numerose e rispecchiano anche i ruoli e le gerarchie a bordo, gli ufficiali sono russi, il capitano è europeo mentre il restante equipaggio è filippino ad eccezione degli allievi che sono anch’essi europei. La suddivisione tra nazionalità emerge anche dalle aree dedicate al pranzo e al tempo libero; gli ufficiali da una parte mentre i restanti dall’altra, creando così una sorta di segregazione all’interno dell’equipaggio. Ogni gruppo ha il suo modo di comunicare: i filippini sono più socievoli, stanno sempre in compagnia, ascoltano musica, cantano al karaoke e appena arrivati in porto non vedono l’ora di vedere un po' di gente, i russi al contrario sono più introversi, parlano poco e di solito ci mettono più tempo ad aprirsi e gli europei alla fine finiscono per passare le serate con i filippini.
Col passare dei giorni ci si conosce di più, ed emerge che ognuno ha il suo modo di interpretare la sua vita in mare; chi lo fa per passione, chi lo fa perché non ha altra alternativa e non vede l’ora di tornare a casa, chi invece non ha soldi, chi non può ottenere un contratto di durata inferiore ai nove mesi, chi invece aspira a diventare capitano a 31 anni, chi è al primo viaggio e ogni tanto gli capita di soffrire pure il mal di mare, chi ha abbandonato gli aerei per le navi, chi aspetta un paio d’anni per smettere di navigare e chi come me è solamente in vacanza. In fin dei conti ciò che accomuna tutte queste persone è il mare, si aiutano tra di loro e cercano di vivere al meglio un lavoro che in alcuni momenti non è facile.
Dopo il mare e il cielo ripetuti per otto giorni e otto notti ci si avvicina all’isola di Martinica e ci si tuffa nel suo clima tropicale e ai suoi colori che contrastano così tanto con le sfumature del blu. Terra!

Carlo Kraskovic

JANIS JOPLIN: LA MEMORIA DI UNA SOFFERENZA BLUES

"Buried alive in the blues". Questo l’ultimo grido straziante che quarant'anni fa Janis Joplin ha lasciato scritto sulla sua tomba. Da poco la grande storia del rock degli anni ’60 aveva assistito incredula alla scomparsa di Jimi Hendrix, avvenuta solo dieci giorni prima della morte della regina bianca del blues. L’America degli hippy e degli amanti della musica rock si ritrovava all’improvviso senza i suoi grandi pilastri che l’avevano guidata verso la vetta universale di una storia vissuta ancora oggi da milioni di giovani in cerca di un nuovo contatto con quel passato rivoluzionario.
Janis Joplin, l’angelo inquieto sul palcoscenico della sua vita, è stata trovata il 4 ottobre 1970 nella stanza di un motel di Hollywood, uccisa dalla sua ultima dose di eroina, sua compagna fedele nell’evasione della sua quotidianità frustrante. Erano gli anni degli hippy, della ricerca della pace, della lotta contro i dogmi sociali, contro la guerra e le repressioni umane, era il momento del rock, che inconsapevolmente aveva rivoluzionato dalle radici il sentire comune di un’intera popolazione di giovani alla deriva, alimentando i loro sogni e ideali per la scoperta di un mondo migliore. Janis faceva parte di questa folla. Incastrata nelle briglie del suo passato, lascia il Texas all’età di 17 anni per realizzare i suoi sogni, guidata dal mito di Bessie Smith, suo modello di vita.
Dopo le prime esibizioni, si stabilisce per qualche anno a San Francisco nei primi anni ’60, qui entrerà a far parte del gruppo dei Big Brother, che in quel periodo cercavano una vocalist femminile e scelsero lei, per le sue doti già ampiamente riconosciute. Con la fusione dell’acid-blues della band e lo stile personale di Janis, la California apre le porte alla voce più imponente della storia del rock.
Aveva un graffio struggente, una fusione di miele e ruggine che faceva impazzire il popolo americano con le sue interpretazioni singolari e strazianti di pezzi blues. Il successo arriva con il primo disco Big Brother and the Holding Company, che segnò la svolta della sua carriera nell’esibizione di New York, ben accolta da parte della critica. Lascerà il gruppo per dedicarsi alla vita da solista, che nel 1968 la vede protagonista del suo secondo album, Cheap Thrills: le si apriranno le porte verso un successo non solo musicale, bensì universale, a tal punto da essere considerata una sex symbol di quegli anni, messa al pari dell’immagine conquistata dalla stravaganza di Jim Morrison e Mick Jagger, Janis sarà considerata una bellezza disfatta, perfetta icona di quegli anni preziosi. Successo, riconoscenza, pubblico e musica erano le sue roccheforti nel sussurro inquietante della sua disperazione, Janis Joplin cantava la sua costante condanna attraverso le note più struggenti di un blues eccitante, usava la sua voce come arma di difesa per la sua timidezza, ricercava sollievo e pace nella droga e nell’alcool, testimoni fedeli della sua disfatta. Woodstock aveva avuto l’onore di averla come dea su un palcoscenico di ideali, conquistati dalla forza divina della sua voce, nelle strofe di Piece of my heart, il suo cavallo di battaglia, interpretato come un urlo di guerra e diventato poi caposaldo nel ricordo dell’evento del '69.
È stata considerata la più grande cantante bianca di blues, la critica impazziva per il suo timbro, i giovani cantanti emergenti la sceglievano come emblema dei loro obiettivi, così Janis Joplin ha conquistato un’intera generazione, urlando al mondo la sua disperazione senza chiedere niente in cambio, senza pretendere aiuto, senza cercarlo; velocemente si è trascinata da sola sulla soglia di una fine prematura, abbandonando la sua patria senza fare troppo rumore all’età di 27 anni, spegnendosi sui passi della sua solitudine e lasciando uno dei più grandi capolavori della storia del rock: Pearl, suo ultimo disco, portava il nome che le davano gli amici per indicare la sua purezza d’animo, sporcata dagli eccessi e dall’incomprensione, dall’alcool e dalla droga, dalla falsa morale della società e da lei stessa. Il suo corpo è stato cremato e le ceneri sono state disperse nell’Oceano, lungo la costa di Maryn County, come simbolo della sua definitiva liberazione. Il suo tributo è stato portato avanti in onore della sua memoria dalle grandi figure rock-blues arrivate dopo di lei, che ancora oggi la ricordano e la scelgono come modello, da Patti Smith a Annie Lennox.

SECOND MAIN - OVVERO LA RIVINCITA DEI SOSIA D'ARTISTA

Parigi. Arte. Non si tratta del Louvre, nemmeno della retrospettiva su Jean-Michel Basquiat o su Larry Clark, non è la FIAC (Fiera Internazionale d'Arte Contemporanea) come neppure la mostra dedicata ad Arman dal Pompidou. Second Main è un'idea geniale che ha rinfrescato e ironizzato le sale del Museo d'Arte Moderna della Città di Parigi. Si tratta di una mostra di falsi d'autore, o meglio di veri-falsi d'artista. Anne Dressen, curatrice dell'esposizione, ha installato all'interno della collezione permanente del museo, tutta una serie di rifacimenti, copie, rivisitazioni che rimandano, in un fantasmatico ciclo ininterrotto, al feticcio originario da cui hanno preso ispirazione; il quale non è detto sia modello originario di se stesso. Bene, rilfettiamoci un pò su. In effetti, quale idea o manufatto (d'arte ma non solo) è talmente originale in sé da poter essere completamente slegato e senza riferimenti a qualcosa che è stato prima, e che sarà poi? Chi è l'essenziale? Esiste forse un padre-madre indipendente da alcuna determinazione, non solo visiva, anche culturale o politica, che fluttua solitario nell'universo artistico inconsapevole dell'esistenza altrui? Sembra che la risposta cercata sia no. Almeno stando a Second Main.
Pablo Picasso diceva: "Il n'y a pas de faux, il n'y a pas que des faux", e Salvador Dalì: "Ceux qui ne veulent imiter personne ne créent jamais rien". Apertura maggiore, oltre la visione che considera falso ciò che somiglia o tende verosilìmilmente a un modello considerato unico e primo. Questa mostra non fa altro che stimolarne la riflessione e porre un problema, non vincolato al passato, ma legato al presente delle nostre vite, quelle di tutti i giorni. Insomma, esisterebbe creazione artistica senza la copia?
Sappiamo come, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, l'aura sacra dell'opera sia andata progressivamente svanendo, e come numerosi siano stati gli esempi concreti di contestazione contro l'idea di originilatià o di autore. La società ha smosso la sicurezza di chi aveva trovato il potere di creare per poi scoprirsi nient'altro che copiatore di ciò che da sempre è rincorso, l'arte. Ma possiamo anche spingerci più in là. La stessa copia considerata fasulla, non può essere essa stessa un originale? Per quanto possa risultare simile nell'aspetto o nell'idea, il falso è inevitabilmente unico. Stabilendo una certa distanza, un abisso, quasi impercettabile tra sé e l'origine, apre una dimensione altra, un linguaggio altro. E sembra che in questa riscrittura dell'identico, nell'introduzione di piccole cesure ma profonde, si possa dar corpo anche un autore collettivo e sociale.
Il problema delle copie, a pensarci bene, diventa d'attualità sconcertante: facilmente si riesce a far comprare al collezionista dottor Girardin un Modigliani, non proprio scaturito dalla mano di Amedeo. I falsi si installano nel corpo sociale ed economico come bacilli di virus che possono esplodere nelle mani dei più ricchi, provocando la beffa oltre il danno. Possiamo intravedere allora nell'attività di questi copisti, anche una critica politica e filosofica al mercato dell'arte, all'egemonia di un qualcosa che in realtà non è riconoscibile. Basta una firma ad autenticare l'opera? Se sì, allora che tipo di rapporto stiamo avendo con l'arte? Forse, nell'età della continua riproduzione, sono proprio i falsari a preservare un'originalità, una reinvenzione e rigenerazione?
A Second Main trovate, per esempio, un esquisse pour les Demoiselles d'Avignon di André Raffray che ovviamente rimanda al celebre quadro di Pablo Picasso; sempre di Raffray merita la Broyeuse de chocolat N°2 de Marcel Duchamp, Interrompue. Imperdibile è il Modigliani di Elmyr de Hory, personaggio esemplare nella storia dei falsi, immortalato dal grande Orson Welles nel film F for Fake. Interessante è il lavoro del collettivo britannico formatosi nel 1968 grazie a Michael Baldwin, Art&Language, che rimette in questione la modernità fondendo in una pratica collettiva e quindi anonima due stili opposti: il realismo sociale sovietico e la dripping di Jackson Pollock. Vi sono poi numerosi esemplari riconducibili alla Pop Art, come le riletture di Sophie Matisse delle opere di Roy Lichtenstein; la celebre NOT Manzoni (Merda d'Artista, 1969) e il NOT Warhol (Brillo Boxes, 1970) di Mike Bidlo. Lo stesso Maurizio Cattelan è presente come falsario con la sua Joseph Beuys' Suit (nella foto), allusione alla grandezza dell'artista e alla mitologia dell'arte. E molti altri ancora...

Giulia Bortoluzzi

LA CINA DI MO YAN


Il grande drago rosso si è risvegliato. Divenuta locomotiva economica mondiale, la Cina turbocapitalista è artefice e al contempo vittima della più grande migrazione mai avvenuta nel mondo. Milioni di persone stanno abbandonando il cuore del paese fatto di poveri villaggi agricoli per raggiungere le immense e caotiche città. L'industrializzazione sta spazzando via i vecchi costumi, modificando i ritmi di una società dalla lunga tradizione, per far posto a uno stile di vita che sarà sempre più influenzato da un'economia di matrice occidentale. Ci affidiamo alla scrittura di uno dei maggiori autori contemporanei cinesi, Mo Yan, per poter meglio comprendere la tradizione dell'immenso popolo di Pechino che rischia di venir dispersa in un dedalo di cemento e di fabbriche. 
Ripercorrendo brevemente la vita di Mo Yan - nato nel 1955 in uno sperduto e povero villaggio dello Shadong - possiamo osservare come dopo la Rivoluzione culturale maoista il giovane scrittore si sia adoperato nei più svariati lavori: il bovaro, l'operaio in fabbrica, e per ultimo, soldato nell'esercito. Nel corso degli anni, però, Mo Yan non ha mai abbandonato la passione per la letteratura, componendo racconti con febbrile costanza. La sua opera maggiore è Sorgo Rosso, una grande narrazione epica che riprende le storie e le leggende del popolo cinese - trasposta sul grande schermo dal regista Zhang Yimou e vincitrice dell'Orso d'Oro al Festival di Berlino nel 1988. 
Influenzato, a detta dello scrittore, da Faulkner e Márquez, teniamo anche presente che Mo Yan è il fondatore di un movimento letterario noto in Cina con il nome di Ricerca delle Radici. 
Ne L'uomo che allevava i gatti possiamo ritrovare le caratteristiche tipiche della penna cinese. In primo luogo emerge la ricerca di una scrittura lirica, capace di rievocare una natura primitiva. E ancora, in questo testo ritroviamo le leggende e i racconti come vera e propria ricerca e peculiarità dell'attività dello scrittore. L'unione dell'elemento naturale con quello leggendario dà forma a un “realismo fantastico” dove la realtà, a tratti dura e violenta, viene velata e mitigata dalla componente magica. È quest'ultimo elemento irrazionale, che sfocia quasi nell'onirico, a non permettere al lettore di stabilire se la storia narrata possa esser vera o verosimile. Un esempio di questo stile narrativo lo ritroviamo vividamente nel racconto che dà il titolo alla raccolta, L'uomo che allevava i gatti, dove, in una Cina rurale e arcaica, un ragazzo bizzarro e misterioso è capace d'incantare e di far ballare i suoi gatti. 
Ma questo “realismo fantastico” è presente in tutti i nove racconti che costituiscono la raccolta pubblicata dalla Einaudi, dov'è possibile sentire le voci di una Cina originaria di cui Mo Yan è stato capace di coglierne i suoni.

LIBRERIE FANTASTICHE


Tra ballerine di can can e altre peripezie da rivista è vietato non entrare in alcune pantagrueliche collezioni cartacee che come cattedrali s'ergono al passo. Come non fermarsi a sbirciare al di là della vetrinetta opaca, oltre ai libri in mostra, e allungare l'occhio spiando curiosi. Finché la mano coraggiosa spinge con fermezza la porticina, e con piglio fiero si varca la soglia in quel posto irto di meraviglie. Esistono librerie e librerie, e senza una sconsiderata forma di snobismo gratuito, è indubbio che c'è polvere e polvere, pagine e pagine. Ed ecco che alcuni luoghi, forse per una naturale dimensione mistica donata dal destino, sono ricettacoli e crocicchi di uomini straordinari o semplici facchini che contengono nel loro tridimensionale abecedario lo scibile umano. E allora questi puntini sul globo esistono, sparuti e lontani ma presenti nel tempo, memori di quello che fu ad Alessandria – fumi che ancora vagano come uno spirito inquieto. Così ne l'élégant Paris alla Shakespeare & Co. ha preso forma l'Ulysse di Joyce, grazie alla bravissima Sylvia Beach che diede il via a quel fascino leggendario tutto collialti della Rive gauche.
Tra i tulipani e i mulini a vento invece, nella città di Maastricht c'è una delle più belle librerie del mondo sorta riadattando una chiesa domenicana del Duecento. Se attraversiamo La Manica e giungiamo nella terra d'Albione è d'obbligo fare una capatina in Marylebone High Street alla Daunt Books, una libreria specializzata in libri chatwiniani incastonati in un locale in stile edoardiano. Spostandosi poi nella penisola iberica, nella bella Barcellona, troviamo in Calle Elisabets 6 La Central del Raval, nella zona storica della città, dove si ritrovano giovani artisti. Una delle più antiche librerie d'Europa, costruita nel 1869 è la Livraria Lello a Porto, in Rua das Carmelitas 144.
A Trieste, in via San Nicolò 30, Umberto Saba acquista e forgia la sua Libreria antiquaria (nella foto). Al suo interno sembra che nulla sia stato ancora spostato o messo in ordine. Pile e pile di tomi, libelli e volumi si susseguono instabilmente con immenso piacere di Bouvard e Pécuchet. Per concludere, oltre Atlantico, nella libreria El Ateneo di Buenos Aires sembra ancor di sentire Borges parlar del suo amore.