GALA E DALI'

La chiamavano Gala.

Lo chiamavano Dalì.

Dicevano che, Gala, se ne andava in giro, da sola, scrivendo sull’arte.

Dicevano che, Dalì, disegnasse sogni e mondi surreali.

Dicono, ora, che Gala fosse giovanissima.

Dicono, ora, che Dalì avesse trentasette anni, quando disegnava sogni e visioni.

Un bambino ha detto di aver visto, un giorno, Gala e Dalì camminare insieme, per strada.

Diceva che, Dalì, teneva Gala a braccetto, tenendo nell’altro braccio un bastone.

Gala, diceva il bambino, quando camminava accanto a Dalì, sorrideva.

Dalì, diceva il bambino, teneva la testa alta, mentre camminava. Non la guardava.

Diceva il bambino che, Gala e Dalì non parlavano, mentre passeggiavano, ma sembrava che si conoscessero bene.

Dicono che Dalì amasse le donne; dicono che ne avesse avute tante.

Dicono che Gala fosse amata dagli uomini; dicono che ne avesse amati solo due, veramente.

Dicevano anche che Gala avesse sofferto una pena lacerante; dicono che non è più uscita di casa,
fino a quel giorno, con Dalì.

Dicevano, invece, che Dalì fosse tornato in città da poco, per non restare.

Dicono che era morto suo padre e che era stato costretto a lasciare la Spagna, per sotterrarlo.

Nessuno sa come si fossero conosciuti, Gala e Dalì.

Nessuno ha mai chiesto nulla, a Gala e Dalì.

Alcuni dicevano che, Gala, fosse inciampata, all’improvviso, nella vita di Dalì, una sera.

Altri dicono che, Dalì, volesse dipingere Gala, in uno dei suoi quadri, una sera.

Gala e Dalì non conoscevano le proprie storie; Gala chiedeva, Dalì non rispondeva.

Gala, dicono, volesse scrivere un racconto su Dalì; Dalì, dicono, non sapesse scrivere.

Hanno detto che, Gala e Dalì, si incontravano, ogni sera, sempre alla stessa ora, allo stesso posto,
senza deciderlo prima.

Hanno detto che, per Dalì, Gala non era una donna qualunque.

Hanno detto che Dalì diceva che, Gala, era troppo giovane.

Dicevano che Dalì non l’avesse mai baciata.

Pensavano che, Gala, fosse affascinata da Dalì e dalla sua arte.

Dicevano che, Gala, non si aspettasse niente, da Dalì.

Dicono che, Dalì, una sera, ha chiesto aiuto a Gala, per riuscire a dipingere. Dicono che, un
pomeriggio, Dalì l’ha portata in un prato ad ascoltare il silenzio.

Dicono che, Gala, scriveva i pensieri di Dalì. E dicono anche che, Dalì, non parlasse quasi mai, con
Gala.

Dicevano che Gala e Dalì si guardavano e si sorridevano. Dicono che comunicassero così.

È stato detto che Gala era troppo, diversamente, bella, per essere amata da Dalì. Dicono che, Dalì, in fondo avesse paura della bellezza di Gala.

Dicono che, Dalì, l’avesse maltrattata, una sera; dicono che fosse perché, Dalì, si stava
innamorando di Gala.

Dicono che, dopo il giorno che li hanno visti passeggiare, insieme, Gala e Dalì non si siano mai più
incontrati.

Pensano che, Gala, abbia avuto da Dalì uno dei suoi quadri; dicono che, Dalì, volesse ingannare
Gala.

Così, Gala, ha scritto a Dalì, raccontandogli perché; dicono che, Dalì, non ha mai chiesto “perché” a Gala.

Hanno sentito dire che, Dalì, è riuscito a disegnare per Gala, dopo quel “perché”.

Hanno detto che, Gala, non ha mai parlato a nessuno di Dalì.

Dicono, ora, che Gala non si è fatta più vedere.

Hanno detto che, Dalì, non l’ha più cercata.

Dicono, ora, che Dalì non l’abbia mai capita.

Ancora nessuno ha visto che cosa, Dalì, ha disegnato per Gala.

Nessuno leggerà che cosa, Gala, ha scritto per Dalì.


LOVE - FOREVER CHANGES

Nel 1967, dopo due album, i Love sono in piena odissea rock: tossicodipendenze, conflitti, inaffidabilità, insomma tutto l'apparato tipico del maledettismo musicale. Una situazione tale da indurre il produttore Bruce Botnick (che qualcuno forse ricorda per il suo lavoro con i Doors) a convocare, per le prime sedute di registrazione del nuovo album, dei turnisti in appoggio al leader Arthur Lee. Questo fatto “scuote” gli altri membri della band, che decidono di darsi da fare, di dimostrare qualcosa. In pochi giorni viene quindi registrato Forever Changes. È un album, questo, dall’equilibrio straordinario (tanto più se si pensa alle premesse), costruito su tensioni musicali divergenti. E l’opener Alone Again Or lo dimostra subito: tre minuti e quindici secondi in cui la sfacciataggine beat e un’inquietudine mariachi giocano tra loro, fino ad esplodere in uno stupendo assolo di trombe sostenuto e accompagnato dagli archi. Una canzone che suona come un susseguirsi irrisolto di luci e ombre, di sorrisi e di sguardi irrequieti, come l’innamorato lasciato che si sforza di nascondere la tristezza. Viene voglia di mettere subito il repeat, ma l’album riserva molte perle che meritano un ascolto. A house is not a motel è un folk rock dall’incedere preoccupato che si fa selvaggio nel finale, quando i due chitarristi, Lee e Bryan MacLean, partendo da uno stesso tema si lanciano in una serie di assoli e sferzate elettriche che si sovrappongono e si inseguono a ritmo disperato. I toni si stemperano con Andmoreagain, una delicata ballata psichedelica sapientemente arrangiata, e il rock di The Daily Planet, dal retrogusto vagamente pinkfloydiano. Quindi è la volta di Old Man, ancora folk psichedelico, fiabesco e sognante. Anche qui gli arrangiamenti d’archi e fiati svolgono un ruolo fondamentale nel sottolineare umori e tensioni della canzone, in un crescendo emozionante. The Red Telephone ha una cadenza surreale tipicamente psichedelica, ma con una drammaticità inedita che gli sha-la-la fuori posto non fanno che accentuare, fino all’inquietante coda di voci cantilenanti. Una canzone poco accomodante (“I don’t know if I am living or if I’m supposed to be”), con una parola, freedom, ripetuta nel fading finale come un mantra senza senso. I sapori latini dell’opener tornano prepotentemente con l’energica Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hillside (!), dove i fiati la fanno da padroni. Live And Let Live è beat scanzonato e acido con una svolta inaspettatamente epica nel bridge, e un finale infuocato. The Good Humour Man He Sees Everything Like This sta sulla scia di placida visionarietà di Old Man, mentre echi dei Rolling Stones si sentono nell’ironica Bummer In The Summer. La mini-suite You Set The Scene chiude l’album con toni e umori altalenanti, quasi a compendio dell’intero album. Dalla partenza beat si passa a un alternarsi di sussurri ed esplosioni di fiati, fino a un finale accorato, che sembra sempre sull’orlo di cadere verso il silenzio. Forever Changes è un album che ha l’essenzialità e la compiutezza dei capolavori, e che non stanca mai all’ascolto.
I Love riescono qui a condensare le istanze musicali del periodo in un mix praticamente perfetto di songwriting e arrangiamenti. Pur mancando della lucida follia dei Pink Floyd barrettiani o della carica debordante dei primi Rolling Stones, riescono a essere selvaggi e sognanti, ironici e drammatici, senza mai apparire sopra le righe. Una volta uscito l’album, la fortuna non è però quella che Arthur Lee e soci sperano. Se da un lato la critica lo promuove a pieni voti, dall’altro Forever Changes riscuote tiepidi consensi di pubblico. I Love si sfaldano, il solo Lee cercherà di portare avanti il progetto mentre gli altri si perderanno per strada, fino agli anni ’90 che li ricordano nuovamente per decessi e nostalgiche reunion. Col passare del tempo questo album è diventato, come spesso accade, un piccolo culto. Che ancora suona fresco e pimpante, e in grado di ricreare ogni volta la magia che rende una musica speciale.

L'OCCHIELLO DELLA "B", LA STANGHETTA DELLA "T"



Una volta Marcel Proust scrisse una lettera lunga la bellezza di dieci cartoline. Perché lo fece? Non lo so. Kafka, invece, si divertiva a fare disegni e schizzi anche sul lato della cartolina dove c'era l'immagine. La trovo una cosa bellissima. A tutti è capitato almeno una volta di spedire una cartolina, fosse del luogo di villeggiatura, del paese in visita o delle vacanze natalizie. Portava un'immagine che avevamo scelto con cura, quella che potesse meglio esprimere il posto o il sentimento che avevamo dell'istante, che meglio avrebbe sopperito al piccolo mutismo che ci imponeva lo stretto spazio bianco alle sue spalle; e avrebbe dovuto suggerire: “Eccomi, è qui che mi trovo ed è ciò di cui ti vorrei raccontare: ti indico a dito, battendo sul cartoncino, al fine di condividerlo con te”. Perché la cartolina è innanzitutto comunione. In uno spazio ridotto si ritrovano vicini i nomi dell'autore, che vergando di propria mano imprime la sua identità unica e distende il tempo sul piccolo cartoncino, e quello del destinatario che non leggerà solo il nome del mittente, ma ne seguirà la grafia, le curvature delle lettere - l'occhiello della “b”, la stanghetta della “t” -, cosicché nell'andatura dei piccoli segni neri potrà interpretare molto più di quello che c'è scritto, e non sarà solo la firma a fargli riconoscere il mandatario, ma sarà l'insieme del movimento ritmato a fargliene scandire la presenza; e inoltre, affianco a essa, ritroverà tratteggiata la sua stessa identità: battesimo e cognome, indirizzo e città. Non ci si potrà sbagliare sul fine: l'immagine e le parole erano dirette proprio a colui che con tanta precisione è stato delineato dalle coordinate postali, in un riconoscimento che suggerisca la considerazione dell'individuo nello spazio, raccontando inoltre di una familiarità conosciuta delle distanze. Come “l'ombrello incontra la macchina da cucire”, i due soggetti si ritrovano nello stesso angolo di carta.
Una rapida “leccata” a un francobollo dai contorni dentellati con piccoli numerini sopra impressi, dove la luce si rifletterà cangiante sulla filigrana, sarà stato l'ultimo gesto prima di infilare di soppiatto il cartoncino nella buca rossa delle lettere. Ritraendo la mano sentiremo la porticina di latta sbattere e penseremo alle parole lasciate senza sapere quante mani attraverseranno; un messaggio privato che diventerà forte della sua fruizione disinteressata di quanti potranno vederlo, e più gente lo leggerà, più questo si farà carico di tutte le prospettive, voci, considerazioni e realizzazioni capitategli nel lungo viaggio.
Finché, quando in seguito il cartoncino arriverà (se arriverà, perché il dubbio resta sempre: vi è mai capitato d'aver spedito una cartolina e che questa, dopo un lungo silenzio protrattosi per giorni e mesi, non sia mai giunta a destinazione? E in seguito a ciò, avete mai fantasticato sul percorso che quel piccolo cartoncino rettangolare debba aver fatto prima di cadere nell'oblio, trattenendo in sé un fascino particolare per il senso di incompleto e di non detto?) tra le mani del destinatario, questo se lo rigirerà, indeciso a quale faccia dar prima credito. Ne sentirà la consistenza con i polpastrelli, ne leggerà il contenuto con cautela, osserverà l'immagine con accuratezza e infine volgerà un'ultima occhiata al francobollo marchiato, prova tangibile dell'avvenuto incontro cui il pignolo postino si sarà fatto credito di istituzionalizzare, e gli apparirà riflessa nell'iride la persona cara immersa nel territorio descritto dalla fotografia.