Nel 1967, dopo due album, i Love sono in piena odissea rock: tossicodipendenze, conflitti, inaffidabilità, insomma tutto l'apparato tipico del maledettismo musicale. Una situazione tale da indurre il produttore Bruce Botnick (che qualcuno forse ricorda per il suo lavoro con i Doors) a convocare, per le prime sedute di registrazione del nuovo album, dei turnisti in appoggio al leader Arthur Lee. Questo fatto “scuote” gli altri membri della band, che decidono di darsi da fare, di dimostrare qualcosa. In pochi giorni viene quindi registrato Forever Changes. È un album, questo, dall’equilibrio straordinario (tanto più se si pensa alle premesse), costruito su tensioni musicali divergenti. E l’opener Alone Again Or lo dimostra subito: tre minuti e quindici secondi in cui la sfacciataggine beat e un’inquietudine mariachi giocano tra loro, fino ad esplodere in uno stupendo assolo di trombe sostenuto e accompagnato dagli archi. Una canzone che suona come un susseguirsi irrisolto di luci e ombre, di sorrisi e di sguardi irrequieti, come l’innamorato lasciato che si sforza di nascondere la tristezza. Viene voglia di mettere subito il repeat, ma l’album riserva molte perle che meritano un ascolto. A house is not a motel è un folk rock dall’incedere preoccupato che si fa selvaggio nel finale, quando i due chitarristi, Lee e Bryan MacLean, partendo da uno stesso tema si lanciano in una serie di assoli e sferzate elettriche che si sovrappongono e si inseguono a ritmo disperato. I toni si stemperano con Andmoreagain, una delicata ballata psichedelica sapientemente arrangiata, e il rock di The Daily Planet, dal retrogusto vagamente pinkfloydiano. Quindi è la volta di Old Man, ancora folk psichedelico, fiabesco e sognante. Anche qui gli arrangiamenti d’archi e fiati svolgono un ruolo fondamentale nel sottolineare umori e tensioni della canzone, in un crescendo emozionante. The Red Telephone ha una cadenza surreale tipicamente psichedelica, ma con una drammaticità inedita che gli sha-la-la fuori posto non fanno che accentuare, fino all’inquietante coda di voci cantilenanti. Una canzone poco accomodante (“I don’t know if I am living or if I’m supposed to be”), con una parola, freedom, ripetuta nel fading finale come un mantra senza senso. I sapori latini dell’opener tornano prepotentemente con l’energica Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hillside (!), dove i fiati la fanno da padroni. Live And Let Live è beat scanzonato e acido con una svolta inaspettatamente epica nel bridge, e un finale infuocato. The Good Humour Man He Sees Everything Like This sta sulla scia di placida visionarietà di Old Man, mentre echi dei Rolling Stones si sentono nell’ironica Bummer In The Summer. La mini-suite You Set The Scene chiude l’album con toni e umori altalenanti, quasi a compendio dell’intero album. Dalla partenza beat si passa a un alternarsi di sussurri ed esplosioni di fiati, fino a un finale accorato, che sembra sempre sull’orlo di cadere verso il silenzio. Forever Changes è un album che ha l’essenzialità e la compiutezza dei capolavori, e che non stanca mai all’ascolto.
I Love riescono qui a condensare le istanze musicali del periodo in un mix praticamente perfetto di songwriting e arrangiamenti. Pur mancando della lucida follia dei Pink Floyd barrettiani o della carica debordante dei primi Rolling Stones, riescono a essere selvaggi e sognanti, ironici e drammatici, senza mai apparire sopra le righe. Una volta uscito l’album, la fortuna non è però quella che Arthur Lee e soci sperano. Se da un lato la critica lo promuove a pieni voti, dall’altro Forever Changes riscuote tiepidi consensi di pubblico. I Love si sfaldano, il solo Lee cercherà di portare avanti il progetto mentre gli altri si perderanno per strada, fino agli anni ’90 che li ricordano nuovamente per decessi e nostalgiche reunion. Col passare del tempo questo album è diventato, come spesso accade, un piccolo culto. Che ancora suona fresco e pimpante, e in grado di ricreare ogni volta la magia che rende una musica speciale.
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