UNO STATO DI ASSENZA

Una strana inquietudine, uno stato di assenza fisica, mentale, spirituale. Nessuna droga in corpo. Immersa in un gioco di cui non conosco le regole, non ne sono padrona, mi faccio trascinare nel vortice dell’inadeguatezza, osservando un flusso che non ha sostanza, che non ha forma né concretezza; ha odore.
Un senso di vomito, piacevole, formicola dentro le mie membra, aumentando i battiti cardiaci e il fremito delle mani, che tremano, ora, mentre scrivo.
Uno stato di assenza.
Una dimensione di instabilità.
Qualcosa mi sta possedendo, non riesco a controllarlo, e i miei sensi scelgono di non farlo, mi lascio travolgere da raggi solari che sussurrano censura.
Uno stato di assenza.
Una dimensione di precarietà.
Lascio la finestra aperta per prendere aria, per cambiare la puzza di questa camera, assorta nel fumo di sigarette che non mi uccideranno. E intanto cado; cado sul terreno della mia gioventù risucchiando la linfa vitale di un individualismo radicato, che si eleva a inno di autenticità di fronte all’integra precarietà della mia stessa esistenza.
Fuori un’umanità che scorre, inseguendo la morte che cammina affianco ad ognuno, quotidianamente; pensarlo è difficile, realizzarlo è immediato. Corriamo e sprofondiamo, lentamente, dentro il vortice di una guerra non ufficializzata.
Ha senso dire tutto questo?
Pecore di gregge, assetate, noi siamo i creatori di una manipolazione mentale che ipnotizza le masse.
Uno stato di assenza.
Una dimensione terrificante.
Ho perso il controllo del mio persistere, dentro tutto questo.
Il bipolarismo della coscienza, da giorni, possiede il lato surreale del mio essere. Leggere questo suggerirebbe la presenza di una paranoia, di qualcosa che ferisce, fa male, provoca laceranti strappi di personalità. Invece io mi sento viva. Dirlo è pericoloso, diventa censura.
Per giorni sospesa, inevitabilmente, fuori dagli schemi sociali, appesa ad un gancio musicale, parole di inchiostro che non trovano il ritmo; ho voluto vivere.
Ieri notte sono piombata, di nuovo, dentro il vortice di immagini, quelle date dai pregiudizi, quelle che, verbalizzate, spaventano. Un bipolarismo con il paradosso di una condizione precaria, fulminea, passeggera, si radica più forte, rompendo il romanticismo di questo sentire.
Uno stato di assenza.
Una dimensione affascinante.


Francesca Schillaci

UNO STILE BRUTALE, QUELLO DI RUBEN FONSECA

Se non avete mai sentito parlare di Rubem Fonseca, questa è una buona occasione per farsi un’idea su questo autore contemporaneo brasiliano e approfittare della lettura di uno dei suoi racconti che potrebbe risultare puramente sconvolgente.


Rubem Fonseca nasce a Juiz de Fora (nello stato di Minas Gerais, Brasile), l’11 maggio del 1925; la sua biografia è irregolare poiché esercita varie attività professionali prima di dedicarsi nella vita completamente alla letteratura. Gli studi in legge, le nozioni di medicina legale, ma soprattutto la professione di commissario di polizia esercitata nella favela Ciudade de Deus, hanno inciso profondamente nella sua vita e nella sua formazione letteraria  poiché gli anni in cui ha lavorato nelle favelas gli hanno permesso di essere lo scrittore brasiliano che più ha avuto contatto con quella realtà.
Le favelas, ovvero le baraccopoli brasiliane costruite in genere nelle periferie delle gradi città (prevalentemente con materiali di scarto), sono spesso considerate una disgrazia ed una vergogna dai brasiliani ma possono essere viste come una conseguenza della distribuzione ineguale della ricchezza del paese. Il degrado sociale e la povertà favoriscono il sorgere di attività criminali, per questo sono da sempre luogo di attività malavitose legate alla droga e alla guerra tra gang (vi consiglio la visione del film  Cidade de Deus diretta da Fernando Meirelles, esemplare unico di stile Neorealista che documenta la violenza delle favelas ).
L’attività narrativa di Fonseca, nasce appunto dall’urgenza di manifestare attraverso i suoi racconti il malessere della società brasiliana che si estende a tutta l’umanità immersa nella metropoli dove tantissimi individui vivono in maniera eterodiretta e finiscono con il sentirsi frustrati. E la frustrazione del “não ter”, di non avere, della povertà estesa a tutti i campi (intellettuale, economica, sessuale…) genera una violenza insaziabile che Rubem Fonseca rielabora nelle sue cronicas facendola diventare leitmotiv letterario.
Il libro più discusso di Rubem Fonseca, Feliz Ano Novo, è una raccolta di quindici racconti, edito nel 1975 viene censurato un anno dopo la sua pubblicazione con l’accusa di attentato alla morale e al buon costume; siamo negli anni della dittatura, di censura politica e culturale in un contesto sociale agitato dove non c’è spazio per una Literatura comprometida, non c’è spazio per una voce scomoda come quella di Fonseca, che si cimenta a scrivere della città e dei suoi problemi. È un nuovo tempo per la storia del Brasile e la produzione di Fonseca arriva al limite del chocante, in cui il contesto sociale si traduce in violenza come forma di trasgressione davanti alle nuove sfide della società. L’autore si definisce un navegator, colui che metaforicamente naviga nel mare della quotidianità carioca fatta di tormentos. Nasce da questa precisa volontà la verosimiglianza che troviamo nei suoi racconti, dove Fonseca traspone in letteratura il quotidiano della metropoli in cui vive, Rio de Janeiro, metafora del Brasile contemporaneo. La sua scrittura è violenta, brutale, asciutta e molto spesso volgare nelle descrizioni , che risultano oscene e ripugnanti; l’uso di molti registri linguistici contribuisce, nella sua scelta stilistica a dare un effetto  catalizzatore: per questo non si parla solo di un linguaggio brutale e chirurgico, ma anche di un vero e proprio linguaggio cinematografico che è capace di raffigurare l’orrore e di ‘far vedere’ la violenza dilagante.
Per farvi un’idea di quello che ho introdotto vi lascio con la lettura con una crônicas di Rubem Fonseca:


Ciudade de Deus
Il suo nome è João Romeiro, ma nella Cidade de Deus tutti lo conoscono come Zinho, una favela di Jacarepaguà, dove chi fa da padrone là è la droga. Lei è Soraia Gonçalves, una donna dolce e tranquilla. Soraia aveva scoperto che Zinho era trafficante di droga due mesi dopo che avevano cominciato a vivere insieme in un condominio di classe medio-alta a Barra di Tijuca.
- Ma ti dispiace? - le aveva chiesto Zinho, e lei aveva risposto che nella sua vita c'era stato un uomo che sembrava un uomo per bene ma che in realtà era un mascalzone.
Nel condominio, si crede che Zinho sia rappresentante di una ditta di importazione. Quando arriva una grossa partita di droga nella favela, Zinho scompare per qualche giorno e per giustificare la sua assenza, Soraia dice alle vicine che incontra nel cortile o in piscina che il marito è in viaggio per affari. La polizia lo cerca da sempre, ma conosce solo il suo soprannome e sa che è bianco. Non l'hanno mai beccato.
Stasera Zinho è arrivato a casa dopo aver spacciato per tre giorni la cocaina speditagli dal suo fornitore di Porto Suarez e la marijuana che viene da Pernambuco.
I due si sono coricati. Zinho era rapido e rude e dopo aver fottuto la moglie, si girava dall'altra parte e si addormentava.
Soraia non diceva mai nulla, stava sempre zitta, non prendeva mai l'iniziativa: ma a Zinho piaceva così; a lui piaceva che la moglie gli obbedisse a letto così come gli altri gli obbedivano nella Cidade de Deus.

- Prima che ti addormenti, ti posso chiedere una cosa?
- Dimmela subito. Sono stanco e voglio dormire, amore.
- Saresti capace di uccidere una persona per me?
- Tesoro, io uccido qualcuno perché lui mi ha rubato cinque grammi, credi che non ucciderei qualcuno perché tu me l'hai chiesto?! Dimmi chi è. È qualcuno del condominio?
- No.
- Di dove è?
- Vive a Taquara.
- E che ti ha fatto?
- Nulla. È un bambino di sette anni. Tu hai già ammazzato un bambino di sette anni?
- Ho già fatto sparare a due merdine che se la volevano squagliare con delle bustine, per dargli un esempio, ma penso che avessero dieci anni. Perché vuoi uccidere un moccioso di sette anni?
- Per far soffrire sua madre. Lei mi ha umiliato. Mi ha portato via il ragazzo, mi ha preso in giro e ha detto a tutti che io ero una vacca. Poi se l'è sposato. Sai, lei è bionda, ha gli occhi azzurri e si crede d'essere il top.
- Vuoi vendicarti perché ti ha portato via il ragazzo? Ma non è che ti piace ancora quel pezzo di merda?
- No, a me piaci solo tu. Tu sei tutto per me. Quella merda di Rodrigo non vale nulla, lo disprezzo e basta. Voglio fare in modo che quella donna soffra perché mi ha umiliato, mi ha chiamato "vacca" di fronte a tutti.
- Potrei ucciderlo.
- Ma nemmeno a lei, lui piace tanto e io voglio che quella donna soffra molto. È solo la morte del figlio che potrebbe farla disperare.
- Va bene. Sai dove è che sta il bambino?
- Sì, lo so.
- Farò andare a prendere il moccioso e lo farò portare alla Cidade de Deus.
- Ma non farlo soffrire troppo.
- Ma non è meglio se quella puttana viene a sapere che il figlio ha sofferto molto? Dammi l'indirizzo. Domani faccio fare il lavoretto. Taquara è vicino alla mia zona.

La mattina seguente, Zinho uscì con la macchina molto presto e andò alla Cidade de Deus. Rimase fuori per due giorni. Quando tornò, portò Soraia in camera da letto e lei, docile, obbedì a tutti i suoi ordini. Prima che lui si addormentasse, lei gli chiese:

- Hai fatto quello che ti ho chiesto?
- Faccio sempre quel che prometto, tesoro. Ho mandato i miei ragazzi a prendere il bimbetto a scuola e l'ho fatto portare alla Cidade de Deus. All'alba gli hanno spezzato le braccia e le gambe, a quel moccioso, lo hanno strangolato e lo hanno tagliato a pezzi e dopo lo hanno lasciato davanti alla porta di casa della madre. Scordati quella cazzo di storia, non né voglio più sentir parlare - disse Zinho.
- Me la sono già scordata.

Zinho le diede le spalle e si addormentò. Aveva un sonno pesante. Soraia rimase sveglia ad ascoltare Zinho che russava. Poi si alzò e prese il ritratto di Rodrigo che teneva nascosto in un posto dove Zinho non l'avrebbe mai trovato. Ogni volta che Soraia guardava il ritratto dell'ex-ragazzo, i suoi occhi si riempivano di lacrime. Era sempre stato così in tutti quegli anni. Ma quel giorno le lacrime furono molte di più.

- Amore della mia vita… - disse, premendo il ritratto di Rodrigo sul suo cuore in tumulto.


Francesca Coltraro

PER LEI

Vi son momenti nella vita in cui si è coinvoltissimi nell’amore. Pensieri d’amore stipati in ogni percezione. Io penso al mio continuo bisogno di essa (considero l’amore come di genere femminile), alla sua assoluta importanza. Penso quanto il suo volo valga il precipizio. Penso a lei talmente tanto che ho dei giorni in cui mi masturbo o rimango a pensare di farlo. Mi prendo un dolce angolo di divano e penso a una pelle cui dedicarmi, a un desiderio che non si esaurisca mai.
Continuo a torturarmi sulle decisioni quotidiane e sulle scelte future. Poi mi colpisce una consapevolezza sulla vita. L’amore ne è il centro e difatti, della mia, ne è la priorità. A chi dimostra di pensare prima al conto corrente lascerei le capre.


Cos’è questa spinta?
Voglio l’amore. Ubriacarmi di lei continuamente e da tutti i suoi flussi. E sono grato di essere consapevole della propria potenzialità, o meglio, della sua precedenza a tutto. Avanti a lei non vedo altro. Chi s’inoltra senza, incespica ciecamente, si trascina avanti con ipocrisia, con devianza, e non con l’idea che forse è l’amore, l’illusione più reale della nostra esistenza. Addirittura che ne sia l’unica concretezza.
Con che parole descriverla?
L’amore. Quella naturale, diretta, silenziosa, autoalimentata, primaria. Sì, perché essa è aprioristica al resto. Prima s’intreccia le lingue, poi si fa il caffè. Prima si passa le labbra sulla punta del capezzolo, poi si fa il nodo alla cravatta. Prima si lecca dal principio delle natiche fino all’ultimo millimetro del clitoride, magari oltre, poi con parti del viso ancora umide si rimane in fila per pagare le bollette (i non trombanti penseranno sia una sfortunata e anomala sudorazione).
L’amore è ovunque. Ci invita e ci tenta. Basta osservare il cielo primaverile e i suoi fiocchi di polline scendere come neve. Amore che chiama. Amore nell’aria.
No. Ecco l’amore denigrato. L’amore represso. L’amore deviato.
Ho incontrato coraggiosi idioti soffermarsi su un “chissà perché fare la puttana è il mestiere più vecchio del mondo”. Ho dovuto rispondere loro che fare la puttana non solo dovrebbe acquisire meritata dignità, ma essere un ideale di coraggio e prestigio. Io sarei di certo un fermo sostenitore della CISL (Confederazione Italiana Sgualdrine e Lupanari). Avrei anche le bandierine in macchina, probabilmente.
E parlo di lei. Parlo d’amore.
Nei momenti in cui passeggio gongolandomi negli ossequi alla Signora, mi capita di sognare la sua rivalsa. Per strada sogno di essere additato da manifesti al femminile che presentino il motto “We Want You. In Us.”. In hotel di aprire il cassetto e invece di Harmony trovare vibratori psichedelici (magari già puliti nei 3 stelle). Sogno di sfogliare un manuale di educazione sessuale per adolescenti e trovare sezioni complete denominate “E tu come pompi?” o “Sesso Anale: diritti e doveri”.


L’amore inteso come massima espressione naturale, quello incondizionato e incivile, non si preoccupa di pubblica raffinatezza. Esso nasce di per sé in stretta intimità con la natura. Privilegiassimo ciò che più è importante nella nostra nuda e cruda esistenza, forse inizieremmo a perseguire una logica direzione nell’universo. Da una parte l’uomo s’è evoluto secondo un senso di comunità civile condotto dalla sua virilità deviata e mendace, dall’altra rimane ancorato alla sua istintività ormai come un vecchio al suo matrimonio di diamante.
Deviata egemonia civile e diretta verità umana. A volte penso a riformarle, a un modo di fonderle.
Imporrei tasse più pesanti a chi tromba con meccanicità. Taglierei luce e gas a chi non si dedica con serietà all’hobby del cunnilingus su mezzi di trasporto. Deporterei in un campo di lavoro chi non rispetta il solito nutrirsi di trasudato vaginale.
Sono per la linea dura. Il governo del coito. Che sogno.

Nicola Fatighenti

LAST OF THE COUNTRY GENTLEMAN

E’ appena calata la notte là, a due passi dal deserto. Un senso opprimente d’infinito e di solitudine. Sabbia e roccia levigate dal vento e i solchi profondi di una terra bruciata dal sole. Quegli stessi solchi che scavano il volto delle persone, che ne costituiscono la mappa di una vita. Spesso è il dolore che lascia la scia di una ruga sul viso, un segno della sua presenza, per non illuderti troppo anche quando se n’è andato via.
Ma ci sono persone che l’asprezza di quella ruga la sanno trasformare in arte, in poesia, nella sublimità di una melodia.
Il dolore percorre così la fronte di un uomo, raggiunge il limite del volto e, trasformato in pensiero, in parola, in suono, si infila altrove, come acqua sporca in un canale di scolo. Quel dolore è infatti la spina dorsale delle sette tracce di un album straordinario e inaspettato.
L’uomo in questione si chiama Josh T. Pearson, ed è sopra una fronte alta e corrucciata che si consuma il paesaggio della sua sofferenza. Un volto fragile nascosto dietro una lunga barba da asceta, secca come un arbusto del deserto, e occhi azzurri e gelidi come un cielo che non lascia scampo. Osservandolo, gli abitanti della modesta cittadina di provincia dove per anni si era rintanato, devono essersi chiesti cosa ci facesse quel volto funereo di druido nel bel mezzo della polverosa provincia texana.
La risposta è arrivata qualche anno dopo, nel marzo del 2011, con l'uscita di “Last of the Country Gentleman”. Era forse serbata per questo lavoro, per questo lungo viaggio interiore che attraversa la rottura del suo matrimonio e sfocia nell’afflitta meditazione che percorre l'album.
La notte. Il deserto. La solitudine. Mettiamoci ora un uomo nudo di fronte a sé stesso, che non cerca giustificazioni perché parla direttamente alla sua coscienza, che non ha bisogno di nascondersi perché si nasconderebbe a sé stesso. Così comincia la narrazione. Una narrazione al vento come quando, a volte, nel parlare tra sé e sé, capita che un pensiero sfugga al controllo e si traduca in parola, in un borbottio involontario. Ecco, Pearson è riuscito a tradurre questi pensieri, i più veri, non in quel borbottio involontario ma in suono e in canto.
Il disco si apre con l'intensa Thou Art Loosed, un canto che si leva dal suolo, come vapore umido dopo un acquazzone estivo. La voce, limpida e celestiale, si spande in un crescendo emotivo dal potere liturgico, sostenuta per contrasto da una pioggia battente di arpeggi veloci à la Leonard Cohen.
C'è un filo sottile e inevitabile che lega questa prima traccia con Drive Her Out, titolo che chiude l'album. È la consapevolezza della fine. La fine di un amore, di una condivisione, di un matrimonio, di un pezzo di vita. È la rassegnazione che questa consapevolezza produce. C'è davvero poca distanza tra il “Don’t cry for me baby / You’ll learn to live without me” della prima e il “Could you help me get her out of my mind / God damn It’s drivin’ me blind” dell'ultima.
Tutto ciò che c'è in mezzo è invece una specie di lungo flashback. Scorrono nella mente e nelle dita di Pearson tutti gli errori, le scuse, le tribolazioni, le stanchezze e gli affanni e le ragioni di questa sconfitta.
L'incredibile intensità delle melodie (basterebbe ascoltare gli ultimi due minuti strumentali di Sorry with a Song per capacitarsene) muove, nell'animo di chi ascolta, una catarsi necessaria e inevitabile. Non ci si può sottrarre. Si viene catturati e legati alle strutture del suono, ogni nota è un nodo stretto alle caviglie. Una volta immobilizzati, non si può sfuggire all'empatia, ad un'immedesimazione tanto dolorosa quanto liberatoria.
Non resta che lasciarsi trasportare da questi lunghi monologhi interiori, flussi di coscienza per voce e chitarra. Verbosi, ma contemporaneamente scarni, vulnerabili, inscheletriti. L'unica fibra che s'intravede, l'unica cartilagine che sopravvive tra i resti di quella carcassa, è il violino di Warren Ellis (già col gruppo australiano dei Dirty Three). Di fronte alla nudità essenziale dell'opera, Ellis ricama un lieve sudario.
Come un respiro, come un'esalazione, s'inserisce nel dialogo, tra gli intrecci di voce e chitarra.
I suoi contrappunti passano sulla melodia come carta vetrata, riempiono l'armonia levigando la secchezza metallica delle corde pizzicate, accarezzate o arpionate dalla mano di Pearson.


Ed egli, dal canto suo, costruisce un'operazione che è al tempo stesso rivoluzionaria ed antiquaria. Vincola nuovamente la musica alle parole, e le parole alla musica, in modo tale che sono proprio queste a determinare l'andamento ritmico della canzone. Il ritmo torna ad essere naturale. Torna ad essere il ritmo libero che, dalla Grecia antica fino al canto Gregoriano, accompagnava prosa e poesia. Le note sembrano essere appese alle parole, inchiodate ad esse. La musica sembra assorbire i loro umori per farsi portare da esse. Tutto ciò è in realtà il risultato di un processo inverso: Pearson costruisce inizialmente la melodia, lasciandola libera, lasciandola andare dove essa, per sua natura, è diretta. Il testo viene quindi sezionato e inciso perché possa aderire al tessuto melodico, perché lo impregni della sua linfa.
E la voce è l'arteria dove essa scorre. Nei suoi scalpiti, nelle sue virate, nei sussurri delicati, nelle parole strozzate o inciampate corrono tutti i sentimenti che quelle parole, quel canto, hanno prodotto. La dolcezza, la paura, la rabbia, la disperazione. Si ha l’impressione che quelle parole siano state serbate a lungo, pesate, sedimentate e trasportate dalla sorgente alla foce della coscienza per lungo tempo. E sembrano scaturire soltanto ora, per la prima volta e in tutta la loro potenza.
Per questo motivo la sua opera suona così meravigliosamente sincera. A questo punto persino nella nota fuori posto, stonata, voluta o inciampata tra le dita, si percepisce tutta l'urgenza della sincerità.