Un senso di vomito, piacevole, formicola dentro le mie membra, aumentando i
battiti cardiaci e il fremito delle mani, che tremano, ora, mentre scrivo.
Uno stato di assenza.
Una dimensione di instabilità.
Qualcosa mi sta possedendo, non riesco a controllarlo, e i miei sensi
scelgono di non farlo, mi lascio travolgere da raggi solari che sussurrano
censura.
Uno stato di assenza.
Una dimensione di precarietà.
Lascio la finestra aperta per prendere aria, per cambiare la puzza di
questa camera, assorta nel fumo di sigarette che non mi uccideranno. E intanto
cado; cado sul terreno della mia gioventù risucchiando la linfa vitale di un
individualismo radicato, che si eleva a inno di autenticità di fronte all’integra
precarietà della mia stessa esistenza.
Fuori un’umanità che scorre, inseguendo la morte che cammina affianco ad
ognuno, quotidianamente; pensarlo è difficile, realizzarlo è immediato.
Corriamo e sprofondiamo, lentamente, dentro il vortice di una guerra non
ufficializzata.
Ha senso dire tutto questo?
Pecore di gregge, assetate, noi siamo i creatori di una manipolazione
mentale che ipnotizza le masse.
Uno stato di assenza.
Una dimensione terrificante.
Ho perso il controllo del mio persistere, dentro tutto questo.
Il bipolarismo della coscienza, da giorni, possiede il lato surreale del
mio essere. Leggere questo suggerirebbe la presenza di una paranoia, di
qualcosa che ferisce, fa male, provoca laceranti strappi di personalità. Invece
io mi sento viva. Dirlo è pericoloso, diventa censura.
Per giorni sospesa, inevitabilmente, fuori dagli schemi sociali, appesa ad
un gancio musicale, parole di inchiostro che non trovano il ritmo; ho voluto
vivere.
Ieri notte sono piombata, di nuovo, dentro il vortice di immagini, quelle
date dai pregiudizi, quelle che, verbalizzate, spaventano. Un bipolarismo con
il paradosso di una condizione precaria, fulminea, passeggera, si radica più
forte, rompendo il romanticismo di questo sentire.
Uno stato di assenza.
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