DRAQUILA A TRIESTE

Il giorno 5 giungo 2010, alle ore 21.15 circa, Sabina Guzzanti ha riempito e miracolosamente inscatolato una quantità non indifferente di carne umana all’interno del cinema Ariston di Trieste. Presentava il suo ultimo lungometraggio Draquila, l’Italia che trema in anteprima al festival di Cannes, snobbato a modello dall’italiano benpensante. Dopo Viva Zapatero! (2005) e Le ragioni dell’aragosta (2007), la censurata Guzzanti torna a fare del bene alla libertà d’informazione italiana, che si sa, non gode certo di buona salute, come quella del Benin e di Tonga per intenderci (fonte Freedom House). Il gagliardo ma inquietante film dipinge un’istantanea dell’Italia odierna alla guida di un governo, quello berlusconiano, denominato “dittatura della merda”. A partire dalle macerie del disastroso terremoto aquilano, la coraggiosa regista si fa strada nel guazzabuglio politico speculante soldi pubblici, e simpatizzante di disastri naturali, altrimenti detti “grandi eventi”. Ebbene sì, l’ingegnoso piano berlusconiano si risolve magistralmente in un equivalenza degna del più celebre matematico: emergenza = grande evento. La protezione civile, organo che nasce per soccorrere la popolazione italiana nell’immediato (e solo nell’immediato) periodo che segue a un’emergenza naturale, si sta oggi evolvendo a mo’ di transformer o pokemon in una società per azioni, dilapidando soldi pubblici statali. Gite pontificie, gare di nuoto, summit internazionali e molti altri grandi eventi sono oggi gestiti dalla protezione civile. Inutile e difficile condensare in poche righe tutti quegli spunti che Draquila riesce invece a mostrare con passione e intelligenza, con la sottile vena ironica che caratterizza la Guzzanti, e che purtroppo nient’altro è se non realtà. Il senso di vuoto devastante che proverete nel guardare questo film non ve lo toglierà nessuno, statene certi. Ma è importante sapere cosa ne è di questo paese che abitiamo e, se intendiamo volerne il bene, renderci autonomamente pensanti e soprattutto agenti. Allego qui un video che ho registrato durante il confronto della Guzzanti col pubblico, quel sabato sera del 5 di giugno, nella speranza di gettarvi addosso un pizzico di curiosità. Su youtube c’è anche il trailer. Per concludere sarà sufficiente citare le parole dell’unico sopravvissuto alla prigionia delle tendopoli: “Se ti prendono, sei finito”!



LE MILLE FACCE DI UNA MUSICA SOLA

Blues, funk, reggae, rock! È possibile trovare tutto questo in un solo gruppo? Ebbene si! Dopo tanto cercare e investigare la sorpresa dei Muñeco Vudu è arrivata una sera mentre me ne stavo seduta al bancone di un bar, bevendo una birra. I Muñeco Vudu sono un gruppo spagnolo delle Asturie, che si è creato nel 2008 per un progetto di “ricerca musicale” con l’obiettivo di trasmettere il proprio senso alternativo e la necessità di un reale contatto con la gente. Sono cinque talenti che suonano insieme da prima della loro ufficiale formazione: Ivo, cantante, compositore e chitarra ritmica; Borja Garcia, chitarra solista; German “Chaman”, basso; Jaime, saxofono e tastiera; Nacho Garcia, batteria e percussioni. Insieme si divertono a giocare con gli strumenti, a ricercare trucchi sonori e melodici attraverso la magia della pura improvvisazione e di una profonda conoscenza tecnica. Con la loro musica riescono a coinvolgere qualunque tipo di pubblico, dalla coppia anziana a passeggio per le strade di Oviedo, agli studenti dell’alta borghesia asturiana, fino ai giovani alternativi seduti ai lati delle strade alla ricerca di un riscontro artistico. Canzoni complete, orecchiabili e coinvolgenti. I Muñeco Vudu suonano scalzi secondo un rito afro, nel tentativo di riscoprire l’essenza originaria dell’umano, attraverso l’aiuto della musica, delle note improvvise che nascono dall’amore per i loro strumenti e dall’accompagnamento di cori di elevata destrezza ritmico-melodica. Musicalmente risentono della forte influenza della tradizione nord e sud americana, riscontrabile nello stile country e reggae e nell’uso delle percussioni, ma la loro unicità deriva anche dalla presenza del quotidiano, della famiglia, degli amici e soprattutto dei viaggi, che hanno contribuito alla creazione del loro primo disco Mejor para todos, inciso quest’anno e già presente nelle classifiche musicali del Principato de Asturias. Qualcuno li considera commerciali, altri alternativi, altri innovativi, così che ho voluto approfondire cosa fosse per loro il successo, che cosa rappresentasse nella loro scala di valori musicali, e Ivo mi ha risposto: “Non lo so se siamo commerciali o alternativi, in fondo che cosa significa? È un modo come un altro di categorizzare qualcosa, di renderlo facilmente criticabile… a me non importa suonare per avere un nome, lo faccio e basta… e qualcosa è cambiato quando me ne sono andato in Guatemala, lì ho trovato una chiave, la risposta alla domanda della mia vita… volevo essere un musicista, costasse quel che costasse, ma solo attraverso la mia arte avrei potuto trasmettere quello che riuscivo a scorgere dentro le persone e in Guatemala c’è tanto di cui parlare, ci sono mille dettagli da descrivere. Ma farlo con semplici parole avrebbe banalizzato il senso profondo di quella terra, di quella gente, di quei suoni, solo la musica mi poteva aiutare a esteriorizzare le mie sensazioni. Così ho scelto di vivere per questa forma d’arte, senza chiedermi se avrei avuto successo o meno, l’ho fatto e basta… e ho trovato la pace con me stesso. Sicuramente il nostro intento è anche quello di rendere piacevoli e facilmente comprensibili le canzoni che scriviamo, così da permettere a chiunque di ritrovarsi, e forse questo può essere considerato commerciale, ma in fondo cosa importa? Non diventerò di certo ricco, ma continuerò a fare il cameriere e a sedermi con qualcuno a un tavolo per parlare di musica, come sto facendo adesso con te… questo per me è il successo!” Dalla canzone di protesta come Con el dedo en el gatillo (primo singolo), al romanticismo di Como Gala y Dalì, i Muñeco Vudu camminano verso un progetto bohemien, puntando al successo nel palcoscenico della vita e degli incontri. Per essere degli artisti ci vuole passione, volontà, ma soprattutto coraggio di rischiare, di mettere tutto in discussione per un sogno o un ideale, esattamente come hanno fatto loro, che continuano a vivere le loro vite normalissime e si prendono la libertà di regalare un pezzo della loro vita a chiunque glielo chieda, senza fare distinzioni. Per saperne di più sulla band e per poter ascoltare le loro canzoni, visitate il loro sito ufficiale o la pagina di myspace.

DANZA ORIENTALE: NON SOLO VENTRE

Ninnoli, tintinnii e donne mezze nude. La danza orientale, ribattezzata dall'occidente “danza del ventre” viene vista spesso come un ballo provocante e sensuale, a discapito di tutti gli sforzi delle professioniste della disciplina. Purtroppo essa è stata introdotta alle masse con le danze ammiccanti delle pin-up statunitensi, e l'idea erotica della danza del ventre persiste tuttora nell'idea collettiva. Forte di questo, Emanuela Suanno, un'eccellente ballerina di raqs el šarqī, appena ha messo piede in televisione si è messa una spada sul seno e poco dopo un coltello in bocca. È un po' come una ballerina di danza classica, avendo a disposizione solo tre minuti sul palco, facesse una lunga spaccata alzandosi sulle mani, e poi ballasse ammiccando al pubblico. Suona ridicolo, ma nel caso della danza orientale a livello telematico funziona, perché rafforza lo stereotipo che si ha su questa danza, cioè una specie di spogliarello dove non mancano i richiami sessuali. Non è raro che una danzatrice del ventre si senta fischiare dietro, ma con il tempo le cose cambieranno, come sono cambiate per tutte le altre ballerine e attrici, che un tempo venivano giudicate poco decorose dalla gente comune. Molte donne europee, da dieci anni a questa parte, si sono avvicinate alla danza del ventre, scoprendo uno sport rilassante e armonioso, ma anche impegnativo e complesso. I benefici della danza del ventre sono molteplici: ne giova la schiena, la circolazione del sangue, gli organi interni, è uno sport ottimo per partorienti e allevia i dolori mestruali, oltre a muovere ogni componente del corpo e a rafforzare la muscolatura di braccia e bacino. Il termine “danza orientale” è molto generico: sarebbe come cercare di definire tutto lo scibile danzereccio d'Occidente in “danza occidentale”. Per “danza orientale” si intende tutta la danza del Medioriente, quella che si tramanda di madre in figlia come le favole e le canzoni nella nostra cultura; è la danza araba classica, con posture eleganti e morbide, che derivano dai balli di corte; è il ballo di paese, dai movimenti più grossolani, con elementi zingareschi. I primi balli simili alla danza del ventre risalgono all'India del 1000 a.C., e sono arrivati nel Mediterraneo circa mille anni dopo: erano rituali propiziatori di culto alla Madre Terra. Attualmente è una danza che si basa sull'isolamento nel movimento delle diverse parti del corpo, il che pone l'accento anche sul ventre (da lì il nome occidentale). È adatta a qualsiasi età, dai bambini alle persone anziane (viene ballata da tutta la famiglia, nei paesi arabi), e non è una pratica esclusivamente femminile, anche se la maggioranza delle ballerine sono donne. Per esempio in Egitto la danza orientale maschile è molto diffusa, ne sono esempi i famosi maestri Yousry Sharif, Saad Ismail e Zaza Hassan. Il Baladī e il Ša'abī sono danze popolari, mentre il Šarqī è l'evoluzione di uno stile che apparteneva ai ceti alti. Fino al Novecento tutta la danza orientale è improvvisazione: poi in Egitto sono state adottate le prime coreografie, e anche la danza altolocata si è fatta più complessa, mischiandosi con quella popolare e adottando vari accessori e strumenti. La cultura occidentale è stata influenzata a più riprese da quella araba, e viceversa. Per esempio alcuni passi della danza classica si chiamano “passo egiziano” e “passo arabo”, mentre i classici campanellini e paillettes della danza del ventre sono di importazione occidentale. Adesso lo scambio culturale continua: in Europa e negli Stati Uniti la danza orientale è diffusissima, è una disciplina riconosciuta a livello sportivo ed è diventata un eccezionale luogo di sperimentazioni e fusioni. Evgeniya Kopteva è una ballerina russa che balla la danza del ventre su musica classica, le Bellydance Superstars americane fondono gli elementi della danza del ventre con quelli del Tribal e della cultura Gothic, Gaia Scuderi ballando sulle musiche di Hossam Ramzy mischia le tradizioni del flamenco con la danza del ventre, in un tripudio di musiche, ritmi, tecniche ed accessori di culture molto diverse tra loro. In Italia la danza del ventre ha avuto fortuna nell'ultima decade anche grazie alla mediaticità di una cantante colombiana che ad ogni video balla insistentemente la danza orientale.
A Trieste le prime maestre Naadirah e Maya Gaorry hanno fatto strada a una sfilza di scuole che hanno arruolato centinaia di signore, ragazze e bambine a ballare su ritmi arabi, tra veli e scarpette alla schiava. Cosa aspettate a provarla? Per un esempio di cosa sto parlando potete passare il 27 giugno alle 21 al Teatro Silvio Pellico di Via Ananian.

CASHBACK

Cashback è un elegante e patinato film inglese uscito in patria nell'oramai lontano 2006, e a oggi mai apparso sui nostri schermi. Sean Ellis firma il suo primo lungometraggio dopo l’omonimo cortometraggio - candidato all’oscar nel 2004 – poi adattato sul grande schermo. Il film ha riscosso un enorme successo di pubblico e critica al di là delle aspettative. La sceneggiatura scritta sempre dallo stesso Ellis, riesce a mescolare elementi appartenenti al mondo della finzione con quello della realtà, che danno alla pellicola quelle caratteristiche sognanti da fiaba romantica senza tempo. In ogni favola che si rispetti possiamo trovare l’eroe intento a fronteggiare una serie di difficoltà sottopostogli durante il cammino. E non è da meno questa pellicola nella quale possiamo trovare, già dai primissimi fotogrammi, il nostro protagonista Ben alle prese con il suo primo ostacolo più grande: la rottura con la sua ragazza Susan. Questo porta Ben a cercare di capire quali possano essere i motivi che hanno segnato la conclusione della loro lunga storia d’amore. Egli non si dà pace e questa tortura lo porta a soffrire di una fastidiosa insonnia, procurandogli otto ore in più di tempo libero. Ben è costretto a impiegarlo in qualche modo per potersi distrarre dalle pene d’amore che non lo abbandonano. Trova lavoro in un supermercato aperto 24 ore su 24, nel turno notturno, in compagnia di strampalati colleghi. La stravagante particolarità dei personaggi che circondano Ben colorano la pellicola di quella giusta dose di comicità demenziale costituita da numerose gag - mai eccessiva o fastidiosa - dal gusto tipicamente inglese. Soprattutto, senza rovinare lo sfondo poetico e surreale voluto dal regista. Ben è un artista e studia all’università sperando un giorno di esporre i suoi lavori in qualche galleria d’arte. Il regista esprime la sensibilità del protagonista dotandolo di una particolare percezione in grado di arrestare il tempo, permettendo così a Ben di poter cogliere tutte quelle sfumature impercettibili costituenti della bellezza, altrimenti invisibili. Cashback è un trattato sul bello, che il protagonista individua ed esprime nella forma del corpo femminile. L’eroe di questa romantica fiaba si ferma in quel suo mondo atemporale, a contemplare quegli aspetti che solo un artista ha la capacità di cogliere. Infatti il regista si diverte a saltellare da uno spazio temporale all’altro fondendo in un unico tessuto narrativo fantasia e realtà. Ben incomincia a sentirsi sempre più attratto da Sharon, la sua nuova collega di lavoro. Una scena particolarmente significativa è quella in cui, seduti in un pub, Sharon descrive a Ben la sua fascinazione nei confronti del mondo dell’arte. Mondo nel quale l’artista ha la capacità di vedere la bellezza in ogni cosa, di poterla catturare e di fissarla al muro perché tutti possano vederla. La rottura della relazione con Susan, e poi il nuovo amore nei confronti della collega, porta Ben a intraprendere un’indagine sull’amore e ad approfondirne quelle caratteristiche che lo uniscono al significato del bello. Una regia raffinata e divertente allo stesso tempo, contraddistinta da complicati e virtuosi piani sequenza, che non portano mai a un eccesso di manierismo gratuito. Le interessanti carrellate e il montaggio ad effetto “congelamento temporale” sono la base portante di questa estetica patinata che dona quel tocco poetico al film. Cashback è uno di quei film come tanti altri che non trovano posto nelle nostre sale cinematografiche e snobbati ferocemente dal mercato italiano, ma che sicuramente meritano una degna attenzione (soprattutto se visti o ascoltati in lingua originale) da parte di tutti coloro che amano sognare e credono che nell’amore possa esistere sempre un lieto fine.

LA CASA DI RAMALLAH


Al crepuscolo della sera movemmo il passo verso il Teatro Rossetti; oramai s’era agli ultimi spettacoli del bel baraccone, e sul cartellone stava scritto: La casa di Ramallah – di Antonio Tarantino, con la regia di Antonio Calenda, e con Giorgio Albertazzi. Certo i nomi trismegisti facevano un gran effetto. Tarantino è sicuramente uno dei migliori drammaturghi contemporanei sulla scena europea. Molto conosciuto in Francia, in Italia ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti nell’esibizione di suoi testi impegnati. Degli altri due nomi - Calenda e Albertazzi - ci risulta difficile riportarne i fasti nelle poche righe che ci restano. Basti questa frase: sono la nostra più prossima storia teatrale. Non ci restò che raggiungere il palchetto triestino con passo solenne. Nella pièce - scritta nel 2004 - La casa di Ramallah siamo testimoni di un viaggio allucinante dove una coppia di genitori anziani accompagna la figlia pronta a immolarsi per la causa dell’Organizzazione che lotta per il popolo palestinese. Il dramma si spiega quasi interamente all’interno di un treno fracassato dove incombe la presenza invisibile e minacciosa della Mossad (il servizio segreto dello stato di Israele) e dello Shin Bet (un altro servizio di sicurezza israeliano), pronti a perquisire le persone in maniera molto approfondita, senza fare sconti a nessuno.
Tra monologhi interiori e flussi di pensieri, sulla vettura si rincorrono i ricordi del padre legati a una quotidianità fatta di armi e povertà; le memorie della madre che trova serenità nel rievocare il faticoso lavoro nella Piana di Thamma, quando sotto un sole cocente raccoglieva pomodori per pochi soldi col marito; e i ricordi della figlia, la quale racconta con un linguaggio violento e crudo della sua squallida infanzia senza sogni, vittima dei dettami dell’Organizzazione. L’onirico viaggio attraversa una terra palestinese che non esiste, e i tre personaggi nominano città e stazioni che prendono vita solamente nelle loro menti, così come la tanto sognata e desiderata casa sul mare a Ramallah – ma purtroppo resterà solamente una visione irrealizzabile, perché a Ramallah il mare non c’è. Padre e madre, in una grottesca comicità, aiutano la ragazza nella preparazione dell’atto estremo: vestita di bianco, la giovane scende dal treno, supera un check-point, ed è pronta a eseguire la sua missione in un finale straziante che ha lasciato gli spettatori senza parole.
 Nel testo di Tarantino non c’è una presa di posizione per l’una o l’altra fazione. Quello che l’autore vuole portare alla luce è il senso di assurdità e di crudeltà del conflitto tra israeliani e palestinesi, il quale viene vissuto come un’ovvietà quotidiana. E così, in tutto il dramma, la strapotenza della storia pervade il privato in una continua persecuzione fisica e morale che fa perdere il senso dell’esistenza al singolo individuo.
Per concludere, in questa produzione del Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia non ci sentiamo di fare preferenza alcuna giacché furono tutti portatori di genio e intensità: Giorgi Albertazzi nel ruolo del Padre, Marina Confalone in quello della Madre, Deniz Ozdogan nella parte della giovane ragazza. Cala la tela.

GIORGIO PRESSBURGER, SULLA FEDE

Conosco Giorgio Pressburger da diverso tempo. Ho avuto il piacere di conversare con lui e di apprendere che la sua cultura non è solo ed esclusivamente letteraria, ma spazia in tutti in campi del sapere. Veramente, con Giorgio Pressburger si può piacevolmente parlare di tutto. È nato a Budapest e vive in Italia da quando aveva 19 anni. Si è diplomato in regia all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, dove ha poi insegnato. Ha tenuto corsi di teatro alle Università di Lecce e di Roma e all’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Ha lavorato alla RAI e dal 1998 è stato Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Budapest. Ha scritto sia racconti che romanzi vincendo il Premio Viareggio nel 1998 con l’opera La neve e la colpa. Ha elaborato e scritto testi per radio e televisione, inoltre ha firmato la regia di molte opere, vincendo numerosi premi. Ha curato la regia di opere liriche e di operette, realizzate per importanti teatri italiani e stranieri. Ha lavorato anche nel cinema e dal 1991 è stato direttore artistico e coordinatore permanente del MittelFest (Cividale), festival di prosa, musica, poesia, arti visive e marionette dei paesi del centro Europa. Tra le varie sue opere, Giorgio Pressburger ha scritto un saggio dal titolo Sulla fede (edito da Einaudi), di cui vi voglio darvi un assaggio. In questo piccolo saggio l’autore ci dice che siamo condannati ad avere ‘fede’, se vogliamo vivere. Pressburger qui ci spiega che cos’è la fede, ci dice se è un sentimento innato o un prodotto dell’ educazione. Lo scrittore, tra dubbi e tormenti cerca i segni della propria fede, mettendo a nudo la sua esperienza, scardinando certezze e false ipocrisie, entrando nelle pieghe più nascoste della mente umana. Per ricostruire la genesi della ‘disperazione della fede’ il discorso di Pressburger indaga le paure infantili, le menzogne dell’età adulta, l’illuminazione della grazia, e attraverso il sostegno di molti compagni di viaggio - da Dostoevskij a Kafka, dalla beata Angela da Foligno a Immanuel Kant - si trasforma in un serrato confronto con la questione del male e della sofferenza.