MA CHE INDIGNAZIONE

Dalla lontana Corea 1952 Marcus Messner (da non confondere con il celebre astuto scalatore del Südtirol) pompato di morfina, praticamente morto, ci trascina nell’inconsistenza della sua vita per mostrarci l’irragionevolezza della fallibilità umana; una questione che probabilmente Philip Roth, giunto alla soglia dei settantasette anni, ha sentito l’esigenza di affrontare con uno sguardo al passato, raccogliendo qua e là indizi della sua stessa illogicità impotente. Dopo l’esperienza di Everyman, racconto straziante di una vita lacerata dalla malattia, e da Il fantasma esce di scena, storia dell’impavido settantenne Zuckerman che riscopre i piaceri della vita e poi muore, Roth ci inocula ex novo il tema della debolezza umana nell’enormità del possibile; è infatti inevitabile il fallimento di chi si crede padrone della propria vita e tenta in tutti modi di maneggiarla secondo forme stabilite. Questa volta però si va oltre (tomba).Il giovane protagonista di Indignazione è un impeccabile studente modello, nato da famiglia jews in una piccola città industriale del New Jersey, Newark (come lo stesso Roth) e sempre attenutosi alle regole del buon costume; soffocato da un padre ormai paranoico posseduto dalla paura, forse preso da un cancro al cervello, e esacerbato dalla banalità dell’ambiente che lo circonda Marcus sceglie di trasferirsi al Winesburg College, Ohio. Perseguitato dall’idea di finire in Corea come soldato semplice e non da ufficiale, s’impegna nello studio e rispetta la severa disciplina accademica. La sua rigidità e incorruttibilità morale da eroe epico lo portano però a scontrarsi con i compagni di stanza: un ebreo bohemienne che fa casino col suo giradischi e un lunatico mantenuto impertinente. Marcus si trasferisce da solo in una scomoda stanza impolverata e abbandonata, cinico e indifferente verso qualsiasi contatto umano se non con l’intrigante Olivia Hutton, la cui sfrontatezza sessuale inizialmente lo sconvolge. Spirito drammatico, fatale e disperato, tentato il suicidio più volte, Olivia porta al polso una cicatrice segno della sua libertà mentale così fuori luogo nell’America anni ‘50. Pathos nel vis a vis con il decano Hawes D. Caudwell che lo interroga sui fallimenti nel socializzare coi compagni di stanza e la mancata partecipazione religiosa. Marcus temerario recita a pennello Bertrand Russel nel suo Perché non sono cristiano blasfemie immoraliste per Caudwell, si salva vomitandogli addosso.L’indignazione di Marcus è dominata da un innocente senso di onnipotenza, dalla convinzione di poter agire positivamente sulla propria vita, comandandone cause ed effetti. Anche il suo pensiero da morto, si ostina a ricercare disperatamente nelle pieghe del tempo una giustificazione, la svista che l’ha condotto al fallimento. Roth stesso infelice impiega tutte le sue forze per tratteggiare la paradossalità dell’esistenza, chiedendosi come un ragazzo così per bene, prospettive alla mano, futuro già in tasca, possa essere morto come un anonimo banale essere umano. Ecco l’indignazione che si prova leggendo queste pagine: considerare la vita di Marcus Messner più importante e degna di struggimento che quella di un qualunque senza nome, soldato semplice, massacrato in Corea (o in qualunque altra parte del mondo fa lo stesso). La tendenza è quella di credere che il nostro sguardo si rivolga da un punto di vista privilegiato, che ci renda più speciali e degni di possibilità di chiunque altro. Invece Marcus morto ha il privilegio di osservarsi da una nuova prospettiva, più reale e tragica perché destabilizzata e relativa. Roth non sorprende durante tutto il romanzo se non alla fine, condensando in poche pagine quell’amara consapevolezza a cui giunge una riflessione moderata su qualunque esistenza. La paura diviene qui elemento importante, il padre kosher è terrorizzato che Marcus possa incappare in un vicolo cieco, la madre è vittima dei luoghi comuni e delle sue stesse aspettative verso il figlio, lo stesso Marcus è angosciato dalla possibilità di finire in Corea; tutti fantasmi prodotti da una società poco adatta alla realtà.

Giulia Bortoluzzi

L'UOMO SERIO DEI COEN

Tornano i fratelli Coen a distanza di un anno dopo Burn After Reading - A prova di spia con l’attesissimo A serious man. Ancora una volta, Joe e Eathen Coen propongono la visione dell’incombere devastante del destino sui corpi inermi e passivi dei loro personaggi, che nulla possono contro un mondo che nuota contro corrente. Questo tema è molto presente in quasi tutta la loro filmografia, e contraddistingue i due registi in una persistente visione grottesca del mondo: intrisi di sfumature ironiche, spesso dovute alle componenti situazionali in cui i personaggi vengono inseriti, i loro film innescano nello spettatore una sensazione straniante. Questi elementi amari e allo stesso tempo comici, dominati dall’avidità e dalla violenza, vogliono sottolineare la stupidità umana, ridicolizzandola, trasformando così la tragedia in un’amara ironia beffarda. Dunque, l’ironia sottile e pungente non manca neanche in quest’ultima pellicola dove i “fratelloni” non si fanno mancare i tratti goffi, caratterizzati dalla sfortuna che accompagna fin dall’inizio il protagonista Larry Gopnik (Michael Stuhlbarg), un professore ebreo di fisica di un liceo. Il film è ambientato nella periferia di Minneapolis intorno agli anni ‘60, e si focalizza sulle disavventure di un “a serious man”. “Nulla può dirsi certo”, questo è quello che Larry insegna ai suoi studenti a proposito del principio di indeterminatezza, e fin dalle sue prime apparizioni, sulla scia di questa massima, niente sembra più andare nel verso giusto: nel luogo di lavoro viene corrotto da uno studente e dal suo genitore, e ancora, si trova ad affrontare delle anonime lettere diffamatorie. Inizia così la vorticosa e inarrestabile discesa verso la rovina del protagonista. Le sue torture non hanno fine ma continuano anche nel focolare domestico, dove regna una completa indifferenza da parte dei figli e della moglie; quest’ultima, come se non bastasse, lo lascia per il suo migliore amico. La figura dell’amante porta quei tratti assurdi propri della tradizione filmografica dei Coen: come se nulla fosse, l’amante chiede all’amico una tranquilla e ordinata separazione con rito ebraico. I registi pongono l’accento sulla situazione alterandola e portandola al parossismo. Producono così un effetto straniante, di cui sono impregnati i personaggi che ruotano attorno al protagonista, il tutto disorientando lo spettatore. Non si salva nessuno, tutti i personaggi passano sotto il giudizio dei registi, e ognuno di loro abbandona la normale percezione della logica. Al contrario di Larry - cui i problemi non fanno altro che piombare addosso -, il fratello riesce invece a essere egli stesso l’artefice dei propri guai - dal gioco d’azzardo alla sodomia. Smarrito e afflitto, il protagonista si affida alla saggezza dei rabbini come guide spirituali, cercando una soluzione alle sue sventure nelle massime e nelle regole religiose. I registi, che sono anche sceneggiatori, inventano la loro storia ispirandosi, come loro stessi hanno affermato, a personaggi realmente esistiti durante la loro infanzia trascorsa nel Midwest. A far da cornice alle ambientazioni anni ‘60, c’è l’azzeccatissima scelta musicale che va da Jimi Hendrix ai Jefferson Airplain. Lo spettatore, nonostante sia totalmente immerso nella tortuosa storia delle peripezie del protagonista, non può dimenticarsi dello strano prologo d’apertura apparentemente scollegato, dove tempo e luogo sono lontani dagli eventi dell’America anni ‘60. Una coppia riceve nella propria casa uno stanco benefattore che il marito ha invitato a ripararsi dalla tormenta di neve. Si scopre però, che la moglie lo conosce già e che in realtà lo credeva morto. Questo fa di lui un demonio per la tradizione ebraica, un dybbuk, innescando nella mente della donna, rispettosa e fedele alla propria tradizione, un presagio di sventura mandato da Dio. Inizia così la tragi-comica storiella ambientata in uno Shtelt polacco ottocentesco in una notte sommersa dal gelo da una tormenta di neve.
Questo strano siparietto iniziale parlato in lingua yiddish prepara lo spettatore, creando in esso quella che il sociologo Erving Goffman chiamerebbe una “definizione della situazione”, che produce nel pubblico un preciso stato d’animo - che in questo caso servirà inconsciamente allo spettatore per immergersi nello spirito giusto. Infatti, fin dall’inizio si percepisce un’atmosfera di tristezza nei confronti del protagonista, che sopporta con amarezza le sventure che si pongono sulla sua strada, mettendolo così duramente alla prova, trasformandolo in un biblico Giobbe in chiave moderna. Ancora una volta i Coen riescono a regalarci delle perle di saggezza, lezioni di vita, trasformate in teatrino, elaborando una sceneggiatura che diventa per lo spettatore un piacevole colpo allo stomaco.

COROT IN MOSTRA A VERONA

Il Palazzo della Gran Guardia di Verona ospita fino al 7 marzo 2010 la mostra Corot e l’arte moderna. Souvenirs et Impressions, prima tappa della collaborazione istituita dal Comune di Verona con il Musée du Louvre, con l’intento di avvicinare più pubblico, specialmente giovane, all’arte e alla cultura. L’esposizione raccoglie circa cento opere provenienti dai musei francesi del Louvre, dell’Orsay e del Marmottan, oltre che da altri musei internazionali, in un percorso espositivo che, a partire da Poussin e dai grandi maestri francesi paesaggisti del XVII secolo giunge addirittura fino a Picasso. La scelta dei dipinti, che possono essere ricondotti ad un arco temporale che attraversa ben quattro secoli, è giustificata pienamente dalla definizione che più si addice a Corot: “L’ultimo dei classici e il primo dei moderni”. Dopo una sezione introduttiva che permette di immergersi immediatamente nel paesaggio, che, inteso come genere, diventa autonomo a partire dal Seicento (con opere di Carracci, di Poussin e di Lorrain), le due sezioni successive sono infatti dedicate a un duplice confronto. Camille Corot (1796-1875), in qualità di ultimo artista classico, riprende i principi estetici tipici seicenteschi, secondo i quali la natura, in quello che viene definito “paesaggio storico” (apprezzabili in particolare Omero e i pastori, 1845 e Democrito e gli Abderiti, 1841), assumeva un’importanza pari a quella del racconto in essa contenuta. Possiamo quindi ammirare, nella seconda sezione, in un susseguirsi di associazioni di idee e di tematiche, dipinti di Etna-Achille Michallon, maestro del Neoclassicismo, di Nicolas Poussin (Paesaggio con Orfeo e Euridice, 1650) e Pierre-Henri de Valenciennes (Biblis trasformata in fonte, 1792). Questi ultimi ci aiutano a comprendere come e grazie a quale percorso Corot sia giunto a definire la sua arte a tal punto da poter essere considerato il più grande interprete della pittura di paesaggio ottocentesco. A questo proposito è da notare quale sia una delle maggiori fonti di ispirazione del maestro francese: i viaggi in Italia (dal 1825 al 1828 e nel 1834 e 1843), grazie ai quali matura la sua concezione della luce e dei colori. Procedendo, nella terza sezione, notiamo come l’arte di Corot si evolva pian piano: la natura non è più rappresentata solo “in quanto tale” ma, indagata nei suoi movimenti e nelle sue vibrazioni, diventa veicolo di emozioni. Dice lo stesso Corot: “Pur cercando l’imitazione coscienziosa, non perdo neppure per un istante l’emozione che mi ha suscitato. Il reale è una parte dell’arte. Il sentimento la completa”. L’ultimo dei classici è diventato anche il primo tra i moderni: attraverso due direttive, la rappresentazione della natura e lo studio della figura umana (Giovane italiano seduto, 1825-1827), è riuscito ad anticipare l’evoluzione della pittura che si compirà pienamente soltanto a cavallo tra XIX e XX secolo. I dipinti di Corot finiscono per influenzare infatti i fauves, gli impressionisti, i cubisti e l’arte astratta, come dimostrano gli intelligenti accostamenti tra le opere di Corot e quelle di artisti quali Claude Monet (La riva della Senna. Primavera attaverso i rami, 1878), Maurice Denis (La Vasca di Villa Medici, la sera, 1928), André Derain (La tazza di tè, 1935), Henri Matisse (Donna col mandolino, 1921-1922), Alfred Sisley (Il bosco delle rocce. Veneux-Nadon, 1880), Paul Signac (Il Pont des Arts, 1928), Paul Cézanne (Alberi e case, 1885), Piet Mondrian (Salice sospeso sull’acqua davanti a una fattoria e una chiesa, 1905), Georges Braque (Donna col mandolino, studio libero derivato da Corot, 1922-1923) e Pablo Picasso (Nudo a mezzobusto, 1923). La mostra, che è curata da Vincent Pomarède, il direttore del Dipartimento di Pittura del Musée du Louvre, e che mette bene in rilievo, attraverso il suo percorso, l’importante ruolo assunto da Corot quale ponte di passaggio dalla tradizione alla modernità, dal passato al futuro, merita decisamente una visita.
Dal 6 Marzo al 29 Giugno 2010 è possibile ammirare la mostra Da Corot a Monet. La sinfonia della Natura presso il Complesso del Vittoriano di Roma.

TRIESTE E L'EVENTO INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI FANTASCIENZA

In via san Nicolò passeggiava con noncuranza un gruppo di jedi. Al Caffè Tommaseo decine di giornalisti vestivano borsette di tela da cui sbucavano poster con uomini-pesce, mentre in Piazza Unità poteva da un momento all’altro fare la sua comparsa Christopher Lee. Cos’è successo a Trieste dal 22 al 28 novembre 2009? La risposta si poteva trovare al Cinecity, che in quei giorni ha ospitato uno dei più importanti Festival del cinema di Fantascienza a livello europeo:Science+Fiction. È un evento che accoglie sia pietre miliari del cinema sia giovani registi che si contendono i premi di critica e pubblico. La Cappella Underground, storica associazione triestina per la ricerca cinematografica (che si trova vicino a tutte le nostre sedi di Facoltà), nel 2000 ha deciso di riprendere l’organizzazione di quest’evento e dal 2002, in collaborazione con la rivista Urania, di premiare ogni anno la carriera di una personalità fondamentale per il cinema di fantascienza. Del premio 2009 sono stati omaggiati due personaggi: il grande attore Christopher Lee e il regista poliedrico Roger Corman. Nella prima giornata del Festival hanno suonato dal vivo i Massimo Volume, gruppo della scena underground italiana che ha musicato il film muto Il crollo di Casa Usher di Jean Epstein. Con martedì invece è iniziata la proiezione dei “neon”, pellicole di giovani proposte della fantascienza cinematografica che per tutta la settimana si sono contese il premio Asteroide, vinto infine dalla prima coproduzione animata russo-nipponica della storia: First Squad: The Moment of Truth. Si tratta di un film ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, dove una giovane veggente è in grado di prevedere il momento in cui qualcuno cambia le sorti di una battaglia: grazie a questo aiuta un gruppo di ragazzini dell’Armata Rossa a combattere contro i nazisti. Il pubblico invece ha premiato il più leggero Timer, una commedia sentimentale che di fantascientifico ha solo l’idea, però si distingue grazie ad una buona regia. La trovata è quella di un futuro vicino al nostro in cui tutti possono farsi installare un aggeggio sul polso in grado di accendersi ventiquattro ore prima dell’incontro con l’anima gemella: questo genera in alcuni personaggi un’estrema razionalizzazione dei sentimenti. Ma la regista non si sbilancia in facili moralismi, limitandosi a descrivere l’intreccio dai diversi punti di vista, e obbligando il pubblico a rifletterci da solo. Poteva capitare, durante le proiezioni, di sedersi accanto a giovani registi di tutte le nazionalità, spesso sconosciuti ed emozionati, o a qualche personalità della giuria, composta da critici, fumettisti, registi e scrittori tra cui Antonio Serra, Gilles Esposito e Bruce Sterling. Tra i personaggi “in vista” che si potevano incontrare al Cinecity c’era anche Federico Zampaglione, premiato per il suo thriller-horror Shadow, già molto apprezzato dalla critica in Inghilterra e in Catalogna. Diversi scettici sono rimasti sorpresi dal talento del frontman dei Tiromancino, nome che associato all’horror avrebbe potuto destare qualche perplessità. Invece il pubblico di Science+Fiction, assistendo alla première nazionale, si è trovato davanti un film pulito ed equilibrato ma allo stesso tempo onirico e disturbante, ben diretto, con rimandi a Lamberto Bava e Dario Argento. Quello che ha stupito di più la sala è stata la forte tematica sociale, insolita per il genere, e l’ottima scelta del cast: l’unico attore presente in sala, che interpretava l’antagonista, è stato coperto di applausi. Un altro film che usa gli strumenti del fantastico per parlare di problemi sociali è stato The Age of stupid, documentario proiettato in collaborazione con LaREA – ARPA FVG, che affronta temi scomodi come l’inquinamento e il riscaldamento globale. Oltre alle proiezioni cinematografiche, il festival ha ospitato le conferenze Art&Scienza in collaborazione con la SISSA, dove si è parlato del connubio tra scienza e fantascienza. Tra gli altri incontri, Bruce Sterling ha parlato di scienza e tecnologia nella fantascienza cyberpunk e Paolo Attivissimo ha smontato, come spesso fa con le bufale delle “catene” online, la tesi di chi sostiene che l’uomo non abbia mai realmente messo piede sulla luna. Quest’anno il satellite più caro all’uomo e alla fantascienza festeggiava i quarant’anni dall’incontro con i primi astronauti: per celebrare quest’evento a conclusione del festival è stata proiettata l’attesissima anteprima del film Moon di Duncan Jones. Dopo la proiezione, in camera ho appeso il manifesto di Science+Fiction 2009. La luna mi osserverà fino al prossimo festival.

Alessia Dagri

IL BLUES NASCOSTO DEI TILLAMOOK

Chi l’avrebbe mai detto che a Trieste esistono dei talenti del blues?
Fino ad ora la pubblicità tra i giovani universitari – non triestini - per il divertimento notturno e per la ricerca di buona musica si è fermata al “Viale 39”, “Round Midnight”, “Duke” o ai vari circoli privati come l’Arci, il Tetris e il vecchio Etnoblog, i quali offrono sia musica live, reggae, ska, Hip Hop, R&B, sia musica da discoteca, coinvolgendo così le piccole, grandi masse universitarie oscurando tanti altri luoghi di ritrovo. Per esempio c’è il “Vecio Canal”, ristorante e pub in piazza Ponte Rosso, dove spesso gruppi triestini suonano il giovedì sera, o il “Leeroy pub”, ristorante e pub irlandese vicino al viale XX Settembre, nel quale ho avuto la fortuna di incontrare i Tillamook.
Le uniche cose che avevano attirato la mia attenzione sono state la particolarità del nome - ripreso da una città degli Stati Uniti, chiamata così per la presenza dei nativi d’America in una contea dell’Oregon -, e il fatto che suonassero blues-rock in un pub irlandese, il Leeroy appunto. Sono rimasta piacevolmente stupita dall’originalità dei pezzi: cover di Tom Waits e testi propri, padronanza dello stile rock-blues anni ’60 inconfondibile grazie alla presenza dell’armonica - suonata dal cantante Manlio Milazzi accompagnato dal basso di Gianpiero DeCandia, dalla batteria di Andrea Dostuni e dalla chitarra di Max Scherbi.
Tutti i componenti del gruppo sono originari di Trieste, suonano insieme da tre anni e come modello hanno vari gruppi a cui si rifanno, come i Paul Butterfield Blues Band, Morphine, Black Sabbath, Tom Waits, James Cotton ecc. Hanno avuto diverse uscite importanti tra cui in Croazia, in un locale chiamato “ Purgeraj” a Zagabria, molto rinomato nel luogo per la musica jazz, blues e rock. Ma l’occasione più importante per la loro carriera è stata sicuramente il festival di Parma, nel 2008, dove hanno vinto le selezioni del “Rootsway Food and Blues” come migliore band italiana: il premio sono state le finali a Memphis, negli Stati Uniti. Da questo momento i loro obiettivi e le loro aspettative hanno iniziato a crescere, tanto che hanno pensato di creare un demo, grazie anche alla presenza del produttore Lorenzo Fragiacomo, il quale li ha seguiti con costanza per tutto il periodo.
Nel corso degli anni hanno sviluppato un grande talento, specializzandosi sul blues, grazie anche al fatto che la maggior parte dei componenti del gruppo ha una formazione musicale londinese. Scrivono testi prediligendo il tema sociale e, a volte, prendono spunto da esperienze personali, metaforizzandole con aspetti onirici e visioni: si rifanno a tutto ciò che gli regala un’immagine e ne creano poi un testo. Lontanissimo dal loro modo di concepire la musica è l’aspetto commerciale, che non traspare né dai loro testi, né dalle basi musicali - per nulla pop -, né dallo stile scelto. Si basano su un concetto di “solismo”: “Noi creiamo musica per musica,” dichiara Manlio, “è l’unico metodo per vedere quanto la gente ti segue nel percorso musicale che fai nel corso della serata, cosa che in Italia si sta perdendo per privilegiare musica commerciale e di facile ascolto”.
Infatti, già in America il loro genere era piaciuto perché considerato interessante e alternativo, cosa che in Italia invece, in alcune delle loro serate, non sempre è stato apprezzato dalle giovani compagnie, perché come dice ancora il cantante: “La cultura della musica live si sta perdendo, i giovani non sono più abituati ad ascoltare un pezzo di chitarra o di armonica dal vivo, non riescono a percepirne l’essenza, oltre al fatto che non viene fatta la giusta pubblicità in una città come Trieste, che ha veramente tanto da offrire ai giovani musicisti emergenti e ad un possibile pubblico”.Sicuramente sono dei musicisti che sanno cosa vogliono, cosa cercano e che cosa si aspettano dalla loro musica, che a quanto pare, viene messa al primo posto nella classifica dei loro valori di gruppo. Al punto tale da non essere ancora mai caduti nell’affascinante ragnatela del semplice successo, che richiederebbe un sacrificio troppo alto per i Tillamook: tradire il blues - e insieme alla madre di tutta la musica moderna - anche tutto il loro pubblico.

Per saperne di più potete visitare i siti: www.myspace.com/tillamookband e www.youtube.com/tillamookband


CAPITANO SAVINIO


Scriveva Savinio su Omnibus il 23 aprile 1938: “L’obbligo non ci tocca di recensire tutte le novità teatrali che càpitano nella settimana, ma quella sola che per qualche ragione ci pare degna d’interesse. Il criterio di scelta varia da settimana a settimana, e ci è suggerito o dalla stima che c’ispira l’autore (caso rarissimo), o dal significato del titolo, o dalla qualità degl’interpreti, o semplicemente dal nostro umore”. Richiamiamo dunque a noi cotanta libertà per poter parlare, seppur tardamene, di Capitano Ulisse e del già citato Alberto Savinio, perché crediamo che il suo genio - perché di assoluto genio si tratta - ancora attende la giusta rivalutazione. In autunno, questa “Avventura Colorata” comparve - a dir il vero inaspettatamente tra noi assidui spettatori - quale seconda esibizione nella stagione di prosa della Contrada, co-prodotta dalla Contrada stessa, dal Teatro Fondamenta Nuove di Venezia e dalla Biennale di Venezia - e se non vado errato, debuttò al teatro Goldoni di Venezia in occasione del quarantesimo Festival Internazionale di Teatro della Biennale.
Venimmo dunque abbracciati, come fossimo a casa nostra, dalla grande e democraticissima platea del Teatro Bobbio di Trieste, tra gente che s’aspettava uno spettacolo di qualità. E, in religioso silenzio, vedemmo prender corpo e vita il dramma.
Capitano Ulisse fu scritto intorno agli anni Venti, per il Teatro d’Arte di Pirandello, ma venne rappresentato per la prima volta appena nel 1938 per la regia di Anton Giulio Bragaglia - e fu allora tacciato di avanguardismo. Il protagonista della pièce, l’apolide Ulisse, altri non è che l’apolide Savinio, il “senza patria”, l’ateniese di nascita - ed alla tradizione greca sempre legato - che studiò a Parigi e in Italia. Quest’opera, tra i testi della giovinezza dell’autore - come Hermaphrodito o Angelica o la notte di Maggio - subito ci fece intendere l’influenza pirandelliana che si portava appresso. Questo Capitano del titolo è un anomalo e nuovo Ulisse: un uomo stufo del suo continuo girovagare mostrandosi eroe quale non è. E allora, in fuga dal suo destino, nel primo atto, Ulisse sfugge dalla dannunziana Calipso, perché il suo desiderio è di rivedere Penelope, e nel secondo atto scappa dalle braccia di una materna Calipso sempre spinto da quel costante desiderio. Ma, raggiunta Itaca e Penelope nel terzo atto, il protagonista non riconosce in lei l’immagine tanto desiderato che lo sospingeva avanti. Così, tolti gli abiti da marinaio e diventato uomo, ignorando anche il divin richiamo di Minerva, s’avvia verso un tragico soliloquio, lontano dalla Donna, figura al contempo di desiderio e di impedimento al cammino.
Onore per l’onirico viaggio donatoci dalla regia e dall’adattamento di Giuseppe Emiliani, e poi, dalle scene metafisiche, i costumi e le maschere di Andre Svanisci. Per non dimenticare le musiche originali anni Venti firmate da Massimiliano Forza a richiamar un po’ d’avanspettacolo. E furono tutti eccellenti interpreti del miraggio: nelle vesti dello Spettatore/Autore c’era Virgilio Zernitz; il Capitano era interpretato da un sicuro e valente Edoardo Siravo (nell'immagine, foto©Agnese Divo), in coppia con la poliedrica e bravissima e “televisissima” Vanessa Gravina nel triplo ruolo di Circe, Calipso e Penelope. Le parti degli altri personaggi dell’odissea saviniana furono dati in consegna agli attori della compagnia stabile della Contrada Maurizio Zacchigna, il marinaio Euriloco e Marzia Postogna divina Minerva, e con la partecipazione di due allievi dell’Accademia teatrale Città di Trieste, Enrico Bergamasco e Cristina Sarti.

Domenico Policarpo