MA CHE INDIGNAZIONE

Dalla lontana Corea 1952 Marcus Messner (da non confondere con il celebre astuto scalatore del Südtirol) pompato di morfina, praticamente morto, ci trascina nell’inconsistenza della sua vita per mostrarci l’irragionevolezza della fallibilità umana; una questione che probabilmente Philip Roth, giunto alla soglia dei settantasette anni, ha sentito l’esigenza di affrontare con uno sguardo al passato, raccogliendo qua e là indizi della sua stessa illogicità impotente. Dopo l’esperienza di Everyman, racconto straziante di una vita lacerata dalla malattia, e da Il fantasma esce di scena, storia dell’impavido settantenne Zuckerman che riscopre i piaceri della vita e poi muore, Roth ci inocula ex novo il tema della debolezza umana nell’enormità del possibile; è infatti inevitabile il fallimento di chi si crede padrone della propria vita e tenta in tutti modi di maneggiarla secondo forme stabilite. Questa volta però si va oltre (tomba).Il giovane protagonista di Indignazione è un impeccabile studente modello, nato da famiglia jews in una piccola città industriale del New Jersey, Newark (come lo stesso Roth) e sempre attenutosi alle regole del buon costume; soffocato da un padre ormai paranoico posseduto dalla paura, forse preso da un cancro al cervello, e esacerbato dalla banalità dell’ambiente che lo circonda Marcus sceglie di trasferirsi al Winesburg College, Ohio. Perseguitato dall’idea di finire in Corea come soldato semplice e non da ufficiale, s’impegna nello studio e rispetta la severa disciplina accademica. La sua rigidità e incorruttibilità morale da eroe epico lo portano però a scontrarsi con i compagni di stanza: un ebreo bohemienne che fa casino col suo giradischi e un lunatico mantenuto impertinente. Marcus si trasferisce da solo in una scomoda stanza impolverata e abbandonata, cinico e indifferente verso qualsiasi contatto umano se non con l’intrigante Olivia Hutton, la cui sfrontatezza sessuale inizialmente lo sconvolge. Spirito drammatico, fatale e disperato, tentato il suicidio più volte, Olivia porta al polso una cicatrice segno della sua libertà mentale così fuori luogo nell’America anni ‘50. Pathos nel vis a vis con il decano Hawes D. Caudwell che lo interroga sui fallimenti nel socializzare coi compagni di stanza e la mancata partecipazione religiosa. Marcus temerario recita a pennello Bertrand Russel nel suo Perché non sono cristiano blasfemie immoraliste per Caudwell, si salva vomitandogli addosso.L’indignazione di Marcus è dominata da un innocente senso di onnipotenza, dalla convinzione di poter agire positivamente sulla propria vita, comandandone cause ed effetti. Anche il suo pensiero da morto, si ostina a ricercare disperatamente nelle pieghe del tempo una giustificazione, la svista che l’ha condotto al fallimento. Roth stesso infelice impiega tutte le sue forze per tratteggiare la paradossalità dell’esistenza, chiedendosi come un ragazzo così per bene, prospettive alla mano, futuro già in tasca, possa essere morto come un anonimo banale essere umano. Ecco l’indignazione che si prova leggendo queste pagine: considerare la vita di Marcus Messner più importante e degna di struggimento che quella di un qualunque senza nome, soldato semplice, massacrato in Corea (o in qualunque altra parte del mondo fa lo stesso). La tendenza è quella di credere che il nostro sguardo si rivolga da un punto di vista privilegiato, che ci renda più speciali e degni di possibilità di chiunque altro. Invece Marcus morto ha il privilegio di osservarsi da una nuova prospettiva, più reale e tragica perché destabilizzata e relativa. Roth non sorprende durante tutto il romanzo se non alla fine, condensando in poche pagine quell’amara consapevolezza a cui giunge una riflessione moderata su qualunque esistenza. La paura diviene qui elemento importante, il padre kosher è terrorizzato che Marcus possa incappare in un vicolo cieco, la madre è vittima dei luoghi comuni e delle sue stesse aspettative verso il figlio, lo stesso Marcus è angosciato dalla possibilità di finire in Corea; tutti fantasmi prodotti da una società poco adatta alla realtà.

Giulia Bortoluzzi

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