LA SIDRA NELLA TRADIZIONE ASTURIANA

Oviedo è la capitale delle Asturie, una regione al Nord della Spagna, patrimonio naturale dell’UNESCO, unico Principato spagnolo e culla della Reconquista.
Tante sarebbero le particolarità da affrontare per spiegare la profonda tradizione che caratterizza questa terra celtico – medievale, partendo dalla distesa dei laghi di Covadonga, all’inno delle Asturie che risuona al battere di ogni ora nella Cattedrale gotica di Oviedo, fino ad arrivare all’elemento più tradizionale per eccellenza: la Sidra. Si pensa sia una bevanda di origine celtica, caratterizzata dal sapore delle mele coltivate in tutto il territorio asturiano: viene lasciata riposare dentro delle botti sigillate e trasfusa poi in specifiche bottiglie di vetro verde, chiuse con un tappo di sughero. Il suo elemento caratterizzante, però, che la rende simbolo delle Asturie, sta nel processo di “versamento”: el “ Escansador” (colui che versa la Sidra) ha l’obbligo per tradizione di versarla in un bicchiere di vetro, tenendo nella mano sinistra “el vaso” e nell’altra la bottiglia, a distanza di un metro circa, affinché la consistenza della bevanda si mantenga in tutto il suo sapore. La tradizione dice che, al momento del “ versamento”, il cliente deve berla tutta d’un fiato, lasciandone solo l’ultimo dito e infine lanciarlo a terra in segno di “ buena suerte”. Se tutto questo processo non viene eseguito, si pensa venga interrotto il flusso magnetico della bevanda. Come un percorso culturale, le persone si ritrovano nelle sidrerie, condividendo lo stesso bicchiere e assaporando la gastronomia asturiana, sentendosi parte di una sola tradizione, di una sola grande famiglia. Valorizzando l’emblema di una terra che, paradossalmente, è rappresentata da una bevanda popolare e semplice, ma per questo scelta come simbolo distintivo di una terra, dove il sentimento contadino è ancora fortemente sentito e vissuto. Purtroppo il Nord della Spagna non possiede un turismo assiduo e costante, ma solo turisti “affezionati” che si sono innamorati di queste zone, poiché la gente preferisce recarsi nella capitale o, ancor più, al sole dell’Andalusia, senza considerare quali bellezze riserva tutta la parte settentrionale.
Infine posso affermare, grazie alla mia permanenza in questa terra meravigliosa, che dovremmo iniziare ad abbandonare gli stereotipi classici che si hanno della Spagna, considerando che non possiede solo divertimento, movida e Flamenco, bensì offre un immenso patrimonio storico, paesaggistico e profonde tradizioni culturali che hanno influito sulla maggior parte delle tendenze europee oggi esistenti.

Francesca Schillaci

CAFFE' E CAFFE'


Nero, ristretto o bollente. Gocciato, lungo o macchiato. Marocchino, alla “americana” o Irish coffee. Ad ognuno il suo caffè. Tra le bevande più bevute e predilette, questo siero è capace di svegliare la mente, agitare il cuore e aiutare la digestione. Tacciato in principio come bevanda del diavolo, era molto amato da Napoleone, da Proust, e sembra che Balzac ne abbia bevuti parecchi durante la stesura della Commedia umana. Goethe e Stendhal invece, non dovevano abusarne onde evitare disturbi e bruciori di stomaco. Da buon irlandese, Beckett lo preferiva corretto col Brandy. Per Voltaire non era mai troppo; Rousseau lo gustava con una goccia di latte; Diderot lo prendeva tutte le mattine al Café de la Régence. Questi ultimi tre uomini hanno passato parecchio del loro tempo nei caffè, che nel Settecento hanno avuto un ruolo sempre più importante e centrale nella città. Crocevia di persone, ci si ritrovava in questi luoghi per discutere delle novità del giorno scambiandosi idee e pensieri. Presto, queste “moderne botteghe” diventarono dei palcoscenici per gli intellettuali che partecipavano in prima persona alla vita sociale. E non è un caso se Verri deciderà di chiamare il suo giornale Il Caffè. Così, tra una tazzina e l'altra, presero vita le rivoluzioni. Come variante scenografica, nell'Ottocento si imposero i café chantant, o caffè concerto dove, oltre che sorseggiare la nera bevanda, si poteva assistere a spettacoli di vario genere.
Caffeinomani o no, oggi possiamo trovare un po' di pace in uno Starbucks dislocato in ogni angolo del mondo, o andare in pellegrinaggio in luoghi “sacri” dove molti artisti, scrittori e intellettuali hanno passato giornate e giornate ad osservare il mestiere di vivere. Nel quartiere di Saint-Germain, nell'ormai mitico Café de Flore si poteva incontrare Sartre seduto ad un tavolino, coperto da un cappotto color marrone un po' dimesso con ritagli di giornale nelle tasche. Ma anche Tangeri, magico porto marocchino, ha avuto degli illustri frequentatori: al Café Hafa Paul Bowles era di casa, mentre Jean Genet preferiva il Café El Menara. A San Francisco invece c'è il Caffè Trieste, dove Ferlinghetti si ritrovava con gli amici beat. Indiscusso però è il fascino dei caffè italiani. Basti pensare all'eleganza del Florian o del Quadri a Venezia, oppure del Pedrocchi a Padova. A Firenze, in Piazza della Repubblica dal 1897 c'è il Giubbe Rosse, che deve il suo nome dal colore della livrea dei camerieri. Qui passavano le giornate a discutere Papini e Soffici. Compariva da quelle parti anche Marinetti, che beveva il caffè con del cioccolato e un pizzico peperoncino. A Roma l'Antico Caffè Greco ha visto passare dal 1760 molti clienti illustri: dai musicisti romantici Liszt, Wagner e Mendelssohn; ai poeti Leopardi, Goethe e Gogol'; per finire con Schopenhauer e Orson Welles. Qui, nel 1919, i futuristi del Bel paese si incontrarono con Picasso e Cocteau. A Napoli dal 1860 il Gran Caffè Gambrinus è un'istituzione. Scrittori come D'Annunzio, Wilde ed Hemingway si sono goduti na tazzulella 'e cafè. Mentre a Palermo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha scritto pagine e pagine de Il Gattopardo nell'Antica Pasticceria Mazzara. E poi si arriva alla città del caffè, Trieste, dove dal 1914 c'è il Caffè San Marco (nella foto). Nelle eleganti sale in stile Secessione, si potevano incontrare Svevo e Joyce - che preferiva il caffè corretto whisky – o Saba e Stuparich. E se proprio non vi piace il caffè, potete sempre ordinare un tè nel deserto.

LINGUACCECONOCCHIALIDASOLE


Attenzione, Siore e Siori, è arrivato il Circo!
Quello con la “ci” maiuscola, quello che vi ha fatti sognare da piccoli, e anche da grandi, quello che vi ha fatto storcere il naso per l'odore degli animali, ma soprattutto tanto, ma tanto ridere. Ora è approdato in città: a un passo dal mare e dalla sacchetta ha piantato i suoi tendoni e tutto attorno si sono parcheggiati alla rinfusa carrozzoni e decine di gabbie di ogni dimensione. Strani, misteriosi animali fremono nell'attesa di entrare nell'arena per allietare, anzi, far scompisciare dal ridere grandi e piccini con la magia dei loro numeri in un colorato ed esilarante CabarèT (con la “ti”, come diseva mia nona). Diciamoci la verità, i circhi in fondo sono anche un po' tristi, e tristi sono questi animali, fenomeni da baraccone un po' disadattati, scarti ai margini della società e della sua follia, a loro volta folli. Ognuno con il suo ritmo, vi racconteranno un po' di loro, e forse scoprirete un po' di voi e di questo bislacco angolo di mondo dove siete capitati. Così, nella cornice di un teatrino anni '30 dove una graziosa ballerina vi ammalierà, vedrete comparire avanzi di galera, portuali in sciopero, cantautrici frustrate, esuberanti esperte di educazione sesssuale e di piadine al prosssciutto, energiche donne balcaniche che risolveranno ogni vostro problema, mimi fuor d'acqua, aggraziati danzatori oversize, modelle in cerca di un provino e chi più ne ha più ne metta, tutti talmente morti di fame che alla fine dell'esibizione non esiteranno a chiedervi di mettere una monetina nel cappello per comprarsi il mangime (o uno spritz al bar Flavia), e ne sarà valsa la pena. Simpatici, penosi, irriverenti, grotteschi, soprattutto energici e vivi, gli Animali Tristi vi aspettano al Circo degli Animali Tristi ogni due giovedì alle 21.30. Li troverete, con gli occhiali da sole calati sulle loro linguacce spiegate, all'Etnoblog - ex Ristorante Ausonia, tra l'Ausonia e il Pedocin, per capirse- Riva Traiana 1/3 (o se no in bar Flavia). Il Direttore del circo vi dà il benvenuto - ”Venghino, Siore e Siori, venghino!” -, il pubblico è in trepidante attesa, le maschere fanno sedere i ritardatari, la luce si abbassa...e comincia lo spettacolo!
Prossime date: giovedì 22/04, 6/05, 20/5.
La tessera è obbligatoria e costa 10 euro (la tessera vale per tutto il 2010 e permette l'ingresso gratuito a tutte le altre date di CABARET e agli altri eventi organizzati dall'Etnoblog).

L'ULTIMO DISCO DEI TRABANT

Se i Trabant sono musica da cocktail, inacidiscono lo spritz. Occhio, dandy, i Trabant hanno solo l'apparenza innocua. Il gruppo triestino ti stordisce con la forte componente elettronica e con ritornelli ballabili, e ti fa credere di ascoltare “pezzi leggeri”, per poi affondare un limone marcio nel tuo bicchiere di glitter. Nulla in loro è superficiale: vasta ricerca musicale, sperimentazioni, testi disillusi nei confronti di una società piatta e straniante. Giulia Cattaneo ne è la tastierista dal loro stato embrionale, quando si chiamavano Faraway Babylon, facevano cover di Bob Marley e non tutti erano maggiorenni. Poi nel 2002 hanno assunto il nome di una macchina tedesca anni '50 e la forma musicale si è via via definita, anche se il gruppo ha sempre “lavorato in modo eclettico”, come dice Giulia: “ognuno di noi ascolta cose completamente diverse, quindi porta influenze eterogenee ai pezzi”. Tutti però hanno “un disco ballereccio nel cuore”, e si sente: ci si diverte e ci si muove, ascoltandoli. Grazie a queste caratteristiche riescono nel loro intento ad avere un target variegato: “la nostra musica si rivolge un po' a tutti: d'altronde non ha senso se non la condividi, non è musica da ascoltare in camera da soli”. Adesso i Trabant sono il gruppo di punta dell'etichetta R!SVP, hanno tre dischi alle spalle, nel 2007 hanno vinto l'Italia Wave e il 26 marzo hanno pubblicato l'ultimo disco, Trabant. I componenti del gruppo sono la già citata “Joujou” alle tastiere, Giacomo Coslovich “Jack” alla batteria, il cantante Giovanni de Flego “IlMarcello” alla chitarra e Michele Zazzara “Chuketti” al basso. Li hanno paragonati a moltissimi gruppi e hanno cercato di inquadrarli in diversi generi musicali, ma non amano molto essere classificati. Giulia Cattaneo, dal canto suo, nella loro musica sente: "elektro, minimal, i Chromeo, Marvin Gaye, Curtius Mayfield, il prog italiano anni '70, e ultimamente sound black e soul legati alla Motown, ma ognuno ci può sentire cose diverse. I critici spesso ci paragonano a musica che non ascoltiamo".
Durante il tour, il gruppo passava ogni weekend in auto per raggiungere i posti più disparati, e ne ha approfittato per ascoltare ore ed ore di buona musica e intavolare discussioni a proposito: da quegli spunti sono partite molte idee per le musiche. “A volte i brani nascono da un riff che uno dei componenti porta, poi ognuno ci aggiunge il suo contributo, finché non si sviluppa il suono finale; comunque il grosso viene fatto con l'improvvisazione ed il lavoro d'insieme”. I testi invece li scrive IlMarcello, “ma poi ce li sottopone”, sorride la tastierista. La scelta dell'inglese deriva dal fatto che tutti abbiano influenze musicali al di fuori dell'Italia, e che “effettivamente funziona, ed è facile farlo funzionare. Comunque sappiamo tutti bene questa lingua, quindi il senso dei testi non viene trascurato”. Secondo Giulia i brani sono importanti anche politicamente, però il cantante si irrita a sentir accostare musica e politica. Non si direbbe affatto, ascoltando i testi di Trabant.
Un chiacchiericcio, la musica inizia a sfrigolare e una voce latina ci incita al ballo. Giochi di parole accompagnano il ritornello orecchiabile. Poi il ritmo si concita, si sente un cowbell, il sintetizzatore si scatena, come la voce “da megafono” e i cori. Però già il singolo Ah Oh Aficionados, il cui ritornello viene ripetuto di continuo, come un mantra, suggerisce una denuncia sociale: cosa facciamo ogni giorno, sui social network, se non collezionare “aficionados” a cui non importa assolutamente di noi? Il tutto prosegue con un finto inno alla generazione festaiola con “uaua” finale, dopodiché la musica si rende più molle, più pop. E di colpo l'aggressione di Hostile Commando DIY, con i suoi cambi di tempo e di stile, quasi una colonna sonora di un film d'azione con pausa latineggiante. Poi la voce si alza di tono, tornano le atmosfere rock e sembra che tutto il gruppo stia cantando. Il tema sociale continua in Mademoiselle PMD, dove i problemi con la ragazza non sono dovuti a stress, ma ad un “errore di programmazione”, e in Less is less, in cui il “normale” è altro rispetto al personaggio: servono delle “maschere di normalità”, perché essere se stessi non è mai abbastanza, e il qualunquismo prende il posto della felicità. In diverse canzoni vengono usati numeri e sigle per definire rapporti sociali, stati d'animo e persone, segno di una realtà spezzata, alterata, schiava di un tempo computato: “puoi rimanere un numero oppure essere la numero 1”, “la relazione non supererà il weekend”. Verso la fine del cd il cantare diventa indolente, la musica sempre più morbida, il gruppo scende in strada, la voce è amelodica, mentre in Sarah Diane, nel luogo di luci dove non sogniamo altro che un “magic spell” che ci porti fuori dalla realtà, persino la disperazione diventa “hot”: sembra un viaggio in America con voci di sirene ad accompagnarci all'andata e al ritorno. Poi un lavorato silenzio, finché Scorpio vs. Gemini non cerca le corde dello stomaco, scaldandolo con voce morfeica e sussurrando l'ultima ironia.
Visita il sito dei Trabant.

PENSIERI A PARIS

Mi trovavo a Parigi. Pensai che non potevo lasciare la capitale della Francia senza essere salito in cima alla famosissima Torre. Dopo una lunga attesa in fila con molti altri turisti, arrivato in cima, cominciai ad ammirare il paesaggio che da quell’altezza dominavo - sembrava di volare. Era uno spettacolo romantico ed emozionante. Poi però, mi guardai attorno. Vidi che ero l’ unico a non avere al mio fianco qualcuno. Meglio, qualcuna con cui condividere quello spettacolo. Fu allora che, improvvisamente, ciò che in un primo momento per me era bello, divenne insopportabile. Direi malinconico.
Certamente così non fu per gli altri turisti, che a differenza di me erano accompagnati da qualche cara persona. Il Bello si mostrava a me con un volto nostalgico ed intimo mentre, in quel preciso momento, i boulevard “chiassavano” per la gran festa ed i pittori di strada tingevano i bagliori della Senna. Il n’est pas possible!
Ma esistono anche delle bellezze quasi “oggettive”, indistruttibili, capaci di farci cadere nella più seducente sindrome di Stendhal. Perdendomi per i corridoi e le sale del Louvre, feci conoscenza con la signora Lisa, “Gioconda”. Si trattava di un’ opera delle dimensioni di 77 x 53 cm, dipinta su un’unica tavola di legno di pioppo tenero. Nell’Ottocento divenne icona dell’ ideale femminile, simbolo della bellezza assoluta e dell’immortalità. Nel Novecento divenne invece oggetto di scherno e di derisione feroce. Il furto del dipinto nell’agosto del 1911, seguito da titoli sulle prime pagine dei giornali e dalla sua assenza dal museo per due anni, non fecero che accrescerne la fama, fino ad allora rimasta confinata nei circoli letterari ed artistici. Il dipinto non è stato mai finito. Non sono finite le due mezze colonne visibili ai lati della donna, il parapetto e parte del paesaggio a sinistra - dove appare il colore rosastro della preparazione. Così come non finite sembrano le dita della mano sinistra, di cui si intravedono varianti nella posizione più o meno piegata. Anche il dito indice della mano destra mostra un pentimento nella larghezza e nel suo disegno. Mi torna alla mente che a caratterizzare la personalità del Grande Maestro, durante la sua lunga vita, era l’iniziare un lavoro senza però portarlo a termine. È con questo ricordo che vi saluto affettuosamente, non terminando l’articolo che avete avuto la grazia di leggere. Ho deciso di imitare un genio che era solito dipingere paesaggi che davano l’impressione di essere visti o immaginati dall’ aereo…

Cicero Bertoli

THE ELEGANT WORLD OF AU REVOIR SIMONE


Au Revoir Simone sono tre ragazze americane di Brooklyn che covano un rapporto speciale con le loro tastiere malinconiche, capaci di evocare stranianti dimensioni da sogno e campi sterminati. Nascono nel 2003 grazie a una casuale conversazione in un treno diretto a New York City tra Erika Foster e Annie Hart che scoprono di desiderare entrambe un gruppo musicale formato unicamente da tastiere. Di ritorno dalla gita fuori porta nel weekend, le due cominciano ad incontrarsi regolarmente e amichevolmente nelle loro case, finché si unisce a loro la terza del gruppo, la signorina Heather D’Angelo, dando il via al magico trio delle Au Revoir Simone. Il loro amore per la musica ha dato presto vita a creazioni estemporanee prodotte da tastierine Casio, vecchie drum machine e il Mini-Moog, e dopo varie esibizioni di stile immaginario-retrò nel 2005 sono uscite col loro primo album Verses of Comfort, Assurance Salvation. Del 2006 è invece The Bird of Music seguito da un tour animato negli Stati Uniti, Canada e Europa.
Lo spirito che anima la loro ricerca musicale si insinua tra le pieghe meno prevedibili delle sonorità metalliche e dell’elettronica emozionale ma raffinata. L’eleganza che risulta dal connubio delle tre tastiere, di una batteria e delle tre voci alienanti delle Au Revoir Simone stupisce per la semplicità con cui trasportano entro mondi di cartapesta, lungo boulevard ottocenteschi, rotolando a perdifiato su colline fiorite. Il coinvolgimento sognante che ne deriva è sicuramente dettato dalla capacità delle tre fanciulle di catturare quanti più suoni possibili e sfumature inaspettate senza lasciarsi prendere da virtuosismi eccessivi. Il loro ultimo nonché riuscitissimo terzo album Still Night, Still Light (Moshi-Moshi 2009) è un ulteriore salto nel vuoto di atmosfere retrò e oniriche, cosparso di un sound elettronico synth-pop oscillante tra nostalgiche vite mai vissute, spensierate rime da cantarsi saltando sopra un letto, e calde e soffiate melodie con cui coccolarsi. Il mondo che cantano Au Revoir Simone è popolato ugualmente da un triste sguardo volto ai tramonti e da una felicità sottile per le piccole cose, la genuinità e nudità femminile umana si riscopre qui in perfetta sintonia con gli artefatti e la tecnologia moderna.
La base strumentale è nel suo stile molto essenziale, arricchita elegantemente da tre dolci voci extra-terrestri che accompagnano lontano dai dispiaceri quotidiani, le armonizzazioni ricordano le atmosfere dei favolosi anni ’60 pur sempre fedeli al background indie contemporaneo, magicamente amalgamato in fiabesche ironie. Pensando a delle influenze musicali che possono aver ispirato ed educato Au Revoir Simone affiorano alla mente Modest Mouse, Stereolab, Mountain Goats, Louis Prima e Pavement, ma anche Beach Boys, Bjork, Bowie, e Billie Holiday. A proposito la rivista britannica Mojo ha detto di loro "Au Revoir Simone is a delicious streak of melancholy that evokes Pet Sounds, mid 70’s art rockers Robert Wyatt and Eno and post-punk miniaturists Young Marble Giants”.
Stupisce per altro il forte legame che questo gruppo un po’ retrò un po’ immaginario intrattiene col cinema, cui sembra in qualche modo esser legato fin nel profondo. Il grande regista David Lynch ha detto di loro “innocent, hip and new” e ha riconosciuto il loro album come uno dei migliori degli ultimi cinque anni. Non solo le loro canzoni compaiono nelle opere del suo scolaro Justin Theroux (sì, proprio quello di Mulholland Drive e Inland Empire) ma le ha anche volute per uno spettacolo alla Fondazione Cartier di Parigi dove ha creato per loro il teatro di “Eraserhead”. Lo stesso nome Au Revoir Simone è tratto dal libro di Tim Burton Pee-Wee’s Big Adventures.
Per farsi un’idea della dimensione fantastica cui da vita questo gruppo tutto al femminile non perdete tempo a curiosare il loro sito, graficamente molto bello e semplice da interagire, che ospita anche qualche brano dal nuovo album: www.aurevoirsimone.com. Ma linkiamo anche questo simpatico video da youtube.