CAPITANO SAVINIO


Scriveva Savinio su Omnibus il 23 aprile 1938: “L’obbligo non ci tocca di recensire tutte le novità teatrali che càpitano nella settimana, ma quella sola che per qualche ragione ci pare degna d’interesse. Il criterio di scelta varia da settimana a settimana, e ci è suggerito o dalla stima che c’ispira l’autore (caso rarissimo), o dal significato del titolo, o dalla qualità degl’interpreti, o semplicemente dal nostro umore”. Richiamiamo dunque a noi cotanta libertà per poter parlare, seppur tardamene, di Capitano Ulisse e del già citato Alberto Savinio, perché crediamo che il suo genio - perché di assoluto genio si tratta - ancora attende la giusta rivalutazione. In autunno, questa “Avventura Colorata” comparve - a dir il vero inaspettatamente tra noi assidui spettatori - quale seconda esibizione nella stagione di prosa della Contrada, co-prodotta dalla Contrada stessa, dal Teatro Fondamenta Nuove di Venezia e dalla Biennale di Venezia - e se non vado errato, debuttò al teatro Goldoni di Venezia in occasione del quarantesimo Festival Internazionale di Teatro della Biennale.
Venimmo dunque abbracciati, come fossimo a casa nostra, dalla grande e democraticissima platea del Teatro Bobbio di Trieste, tra gente che s’aspettava uno spettacolo di qualità. E, in religioso silenzio, vedemmo prender corpo e vita il dramma.
Capitano Ulisse fu scritto intorno agli anni Venti, per il Teatro d’Arte di Pirandello, ma venne rappresentato per la prima volta appena nel 1938 per la regia di Anton Giulio Bragaglia - e fu allora tacciato di avanguardismo. Il protagonista della pièce, l’apolide Ulisse, altri non è che l’apolide Savinio, il “senza patria”, l’ateniese di nascita - ed alla tradizione greca sempre legato - che studiò a Parigi e in Italia. Quest’opera, tra i testi della giovinezza dell’autore - come Hermaphrodito o Angelica o la notte di Maggio - subito ci fece intendere l’influenza pirandelliana che si portava appresso. Questo Capitano del titolo è un anomalo e nuovo Ulisse: un uomo stufo del suo continuo girovagare mostrandosi eroe quale non è. E allora, in fuga dal suo destino, nel primo atto, Ulisse sfugge dalla dannunziana Calipso, perché il suo desiderio è di rivedere Penelope, e nel secondo atto scappa dalle braccia di una materna Calipso sempre spinto da quel costante desiderio. Ma, raggiunta Itaca e Penelope nel terzo atto, il protagonista non riconosce in lei l’immagine tanto desiderato che lo sospingeva avanti. Così, tolti gli abiti da marinaio e diventato uomo, ignorando anche il divin richiamo di Minerva, s’avvia verso un tragico soliloquio, lontano dalla Donna, figura al contempo di desiderio e di impedimento al cammino.
Onore per l’onirico viaggio donatoci dalla regia e dall’adattamento di Giuseppe Emiliani, e poi, dalle scene metafisiche, i costumi e le maschere di Andre Svanisci. Per non dimenticare le musiche originali anni Venti firmate da Massimiliano Forza a richiamar un po’ d’avanspettacolo. E furono tutti eccellenti interpreti del miraggio: nelle vesti dello Spettatore/Autore c’era Virgilio Zernitz; il Capitano era interpretato da un sicuro e valente Edoardo Siravo (nell'immagine, foto©Agnese Divo), in coppia con la poliedrica e bravissima e “televisissima” Vanessa Gravina nel triplo ruolo di Circe, Calipso e Penelope. Le parti degli altri personaggi dell’odissea saviniana furono dati in consegna agli attori della compagnia stabile della Contrada Maurizio Zacchigna, il marinaio Euriloco e Marzia Postogna divina Minerva, e con la partecipazione di due allievi dell’Accademia teatrale Città di Trieste, Enrico Bergamasco e Cristina Sarti.

Domenico Policarpo

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