
Trentatré, quarantacinque, settantotto. Sono i giri che un vinile può fare piroettando su stesso. Questo piatto di gommalacca o in pvc allinea file d'amanti sin dagli anni cinquanta, quando i dischi da settantotto giri lasciarono pian piano spazio ai cosidetti microsolchi. Il vinile non è altro che una superificie circolare che dall'esterno verso l'interno è solcata da una spirale di musica. Ovviamente il numero dei solchi incide sul numero di giri al minuto che un piatto è in grado di fare. Abbassamento di giri corrisponde quindi a una maggiore durata d'ascolto per lato. La storia ci racconta come il vinile, originariamente, non fosse altro che parte di giocattoli parlanti. Solo successivamente, intorno al 1925, la Berliner gli diede l'ufficiale velocità nonché l'effige di settantotto giri. Ma fu la Columbia la prima a realizzare i dischi a doppia facciata, prodromo del modo di dire “B-side” che ancora oggi si utilizza per indicare un brano d'importanza minore, marginale, e quindi appartenente al lato B piuttosto che all'A del disco. Per essere precisi, è solo dal 1948 in poi che si dovrebbe parlare di vinile. Il termine, infatti, definisce letteralmente il solco di dimensioni minori che permette di avere un tempo di registrazione maggiore, e quindi una godibilità all'ascolto qualitativamente migliore. Con l'immediato dopoguerra, a metà del novecento, i dischi cominciarono a fiorire e a diffondersi maggiormente. Molte furono le case d'incisione italiane: la Carisch, la Parlophon, la Cetra, la RCA, la Voce del Padrone ecc. Tutti i più importanti artisti del novecento hanno inciso almeno un vinile, a partire da Elvis Presley, passando per Nilla Pizzi fino ai Noir Désir. Gli artisti italiani vincitori del Festival di Sanremo registravano i propri dischi e la gente amava ascoltare “Grazie dei fiori” su quel piatto nero che ruotava e ruotava, e veniva voglia di danzare. Come nei localini dell'est americano suonava sicuramente il rock di Chuck Berry o la brillantina di pailletes di Graceland. Oppure in qualche caffé di Montparnasse la voce di Edith Piaf s'alzava graffiante da una puntina di precisione. Il vinile piroettava un po' ovunque sui giradischi - nelle case o nei bar - gridando o sussurando dolcemente roteava con la gente. Il vinile non era solo un supporto svilito e trascurato, era un oggetto vero e proprio, era da toccare, aprire, mirare e rimirare. Con la sua copertina di cartoncino colorato, coi testi delle canzoni riportate sulla carta e infine lui, nero o colorato, bucato al centro, solcato da quel linguaggio incantato che è la musica. Sembrava fosse giunto il tempo del pensionamento, ma il vinile resiste a mo' di un Bartleby melvilliano.

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