IL PIU' GRANDE BASSISTA DEL MONDO

Il 21 settembre 1987 Jaco Pastorius moriva all’ospedale di Fort Lauderdale, dopo alcuni giorni di coma. Circa dieci giorni prima, dopo essere stato cacciato da un concerto di Santana per una

“invasione di palco”, si era diretto verso un altro locale. Non vollero farlo entrare. Lui insistette, gridò, prese a calci e pugni la porta. Il buttafuori prese a calci e pugni lui, ammazzandolo letteralmente di botte. Si chiudeva così una parabola umana e artistica tanto problematica quanto rivoluzionaria.
Jaco Pastorius entra in collisione con il mondo della musica jazz negli anni settanta. Suona il basso elettrico, ma non lo fa come gli altri. Per ottenere un sound peculiare ha tolto i tasti dal manico, e quando ci mette le dita inventa cose inaudite. Suona contemporaneamente armonici, accordi, ritmica, melodie. Con una tecnica spaventosa, unisce tutte le potenzialità del basso in una maniera che nessuno, fino a quel momento, aveva pensato possibile, affermandolo come strumento solista e non più di mero accompagnamento.
Nel 1974 esce il suo primo album, autointitolato. Un lavoro acclamato dalla critica, dove spiccano composizioni come A Portrait Of Tracy (un assolo basato sugli armonici), Donna Lee (una reinterpretazione per basso e congas del brano di Miles Davis) e Come On, Come Over, che con gli anni diventeranno dei classici.
Nello stesso periodo, Pastorius entra in contatto con Joe Zawinul, leader dei Weather Report, band che da qualche anno sta reinventando il jazz inserendovi elementi funk e rock, creando di fatto quel genere chiamato poi “fusion”. La leggenda vuole che al loro primo incontro Jaco si presenti come “il più grande bassista del mondo”. La replica di Zawinul è secca: “levati dai coglioni”. I due restano comunque in contatto (Zawinul dirà poi che Jaco gli ricordava sé stesso da giovane), e quando i Weather Report rimangono senza bassista, la scelta ricade naturalmente su Pastorius.
La band di Zawinul sarà per Jaco un trampolino di lancio: la sua straordinaria bravura, le sue capacità compositive – già mostrate sull’album solista – e la sua attitudine sul palco lo rendono in breve una star del jazz. L’album Heavy Weather del 1977 diventa una pietra miliare (oltre che un successo commerciale) grazie anche al suo apporto innovativo, che rende memorabili pezzi come Birdland e Teen Town.
In pochi anni, però, la situazione cambia radicalmente. Jaco comincia a fare uso di droghe e alcol (forse per la notorietà, forse per la crisi del suo matrimonio), e adotta comportamenti sempre più bizzarri. Zawinul si stanca della sua attitudine da primadonna sul palco, e il loro legame, quasi un rapporto padre-figlio, si incrina.
Weather Report (1981) è l’ultimo album di Pastorius con la band di Zawinul. Questi si è imposto come regista assoluto, e Jaco sfoga la sua inventiva nell’album solista Word Of Mouth del 1982, dove si concentra maggiormente su composizioni e arrangiamenti, senza dimenticare il suo eclettismo al basso (vedi l’adattamento di Bach in Chromatic Fantasy). Lasciare i Weather Report è un passo quasi obbligato; quindi Jaco tira in piedi la Word Of Mouth Band e intraprende un tour in Giappone.

L’aneddotica su questo tour, vera o falsa che sia, si spreca: Jaco si presenta sul palco con la faccia pitturata e la testa rasata; spesso non suona ma corre e fa capriole; guida una moto nudo e viene arrestato. Al suo ritorno gli viene diagnosticato un disturbo bipolare, da curarsi con litio. Ma le sue condizioni mentali peggiorano, aggravate dall’abuso di alcol. Diventa violento, e le sue performance sono così disastrose che nessun locale lo vuole far suonare, nessuna casa discografica gli offre un contratto.
Negli anni che seguono è sempre più solo e incontrollabile, e vagabonda per lunghi periodi dormendo per strada. Nel 1986, per interessamento dell’ex moglie e del fratello, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, ma dopo poche settimane è di nuovo fuori. La fine, a soli 35 anni, è nota.
Il segno lasciato da Jaco Pastorius nel mondo della musica è indelebile, e oggi l’importanza del suo contributo è universalmente riconosciuta. Come per altri famosi “matti” dell’arte, anche per lui il disturbo mentale non è stato quel soffio divino che volevano gli antichi, bensì un istinto distruttivo che l’arte stessa cerca di arginare, o meglio di instradare in opere così ardite e innovative da sembrare folli. La fascinazione per queste personalità non è che un retaggio romantico, l’invidia di una forma alternativa di libertà che in realtà è sofferenza e disagio. Ma quello che rimane, quello che conta davvero, è ciò che possiamo ancora ascoltare e ammirare.

Giuseppe Nava

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