LA CENA DI EMMAUS

Baricco ad Emmaus fa faville. Stilisticamente sciolto e lineare, lo scrittore torinese mette in fuga le parole una dopo l’altra con ritmo onesto e incantato. Preso nell’entusiasmo del passato, rivive a denti stretti l’educazione sentimentale di quattro sedicenni che, pagina per pagina, perdono la loro innocenza irrompendo nel mondo reale. Baricco non pecca di virtuosismi, e questo è un merito che non gli si può non riconoscere. La lettura del suo Emmaus scorre veloce e armoniosa, tesa ad un filo sottile che lascia raramente spazio a pause ridondanti o eccessi di protagonismo. La presenza grigia dell’autore si fa strada nel linguaggio disinvolto del protagonista che spicca per sensibilità, proponendo riflessioni ardite sulla condizione esistenziale di noi tutti, con un parlare piuttosto disincantato, e per bene. Il racconto di un adolescenza perduta ma non troppo, infatti “abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato.” Ecco il mondo che vede Baricco, un mondo normale, normato, un mondo tenuto ben dentro i propri contorni rassicuranti, incapace di sconfinare altrove, tranquillizzato dalla propria ignoranza o falsa che sia. Verrebbe da chiedersi allora perché quest’insonnia? Perché quest’impossibilità di andar oltre l’adolescenza della vita, presi in una paralisi emotiva e morale troppo dentro la nostra società perbenista occidentale? Al di là dell’immacolata pagina bianca, intonsa e nuda, lo scrittore Baricco intravede uno spiraglio di mancata lucidità, un’alba alla soglia dell’immaturità fuggitiva che, imprendibile come l’animalesca Andre, non si concede… Rassicurante o no, qualcosa si scorge. I quattro discepoli se ne vanno a zonzo per tutto il libro in cerca di scorgere il mistero insondabile del bene e del male, secondo parametri incerti e fiuto sottile. Seguendo il filo d’Arianna-Andre i nostri eroi, uno ad uno, lasciano cadere i propri vestiti, le proprie sovrastrutture sociali e religiose, per ritrovarsi un po’ più privi di maiuscole ma pur sempre dentro un campo di forze ingestibili. Prima Bobby, che si incontra clandestinamente con la sinuosa sirena Andre, la giovane smaliziata, figlia di un mondo diverso, disilluso ma non privo d’incanto, portatrice di una realtà elegante e sofferente (sull’orlo apparente del suicidio). Lui suona il basso e lei danza. Liberati da costrizioni e doveri, godono nell’esprimere la loro arte, denudati, soli e malinconici. Poi Il Santo – figura mistica quanto dissacrante – preso a tal punto dalla ricerca dei suoi demoni, lo diventa egli stesso. Come se il confine tra santità e malvagità fosse a tal punto confuso da non distinguerne più i confini. Luca invece decide di liberarsi dal peso della vita, dal fardello culturale che pesa su di lui, dalla famiglia equilibrata ma a suo modo folle, dalla paura di dover esser grandi. Ognuno di loro, a suo modo, esce da queste pagine liberato da un potere schiacciante, ma caricato anche di un peso più duro da condurre, quello della consapevolezza, della brutalità della vita.
Nei mesti movimenti che agiscono sui quattro giovani torinesi è preponderante la presenza della religione, della chiesa cattolica all’italiana. Nel bianco romanzo, c’è una non velata critica, o presa d’atto, dell’inattualità di un linguaggio troppo distante dalla realtà crudele e disincantata di oggi. Si avverte la presenza di una forza che spinge altrove, che tenta di allargare quel campo di sapere talvolta così schiacciante da render ciechi, come i discepoli di Emmaus davanti a Gesù risorto. Sulla pelle degli uomini si consumano le piaghe di un potere, qualsiasi esso sia, che sembra gestire ogni angolo delle nostre vite ma che in realtà se ne fa beffe sotto i baffi. Al di là di tutto, al di là della religione, resta l’uomo nella sua solitudine di uomo. E il senza nome protagonista narrante le vicende del noi-io, forse lo stesso autore, racconta a ritroso i suoi anni giovanili come se questi condensassero l’intera sua educazione, la sua vita arrestata lì, nel punto in cui è caduta quella certezza di felicità. Denudatosi di sé e del mondo è forse pronto ad un sorriso più amaro, o forse no. A noi lettori, invece, rimane il desiderio e la speranza di ascoltare lo educato e siffatto scrittore Baricco cimentarsi su più sorprendenti cammini, verso lochi inesplorati e meno facili. Per così dire, ci si aspetta di meglio.

Nessun commento: