URLO, IL FILM


I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves throught the negro streets at dawn looking an angry fix. Questi sono i versi d'apertura di Howl di Allen Ginsberg, narratore di un'America anni '50 lacerata tra maccartismo e Guerra Fredda. Questo poema, divenuto manifesto di una generazione mitica - anche per motivi extra letterari -, esprime quel sentimento di controcultura che caratterizzerà il percorso artistico e sociale degli Stati Uniti, ma non solo: la rivolta degli anni Sessanta, le sommosse studentesche, l'emancipazione sessuale, la droga, Jimi Hendrix, Bob Dylan e James Dean. Un'onda d'urto che cambierà per sempre il modo di vivere e di interpretare la realtà. Non bisogna dimenticare che il testo è stato scritto nel primo decennio dal secondo dopoguerra. In una società ancora provata dall'incubo della storia, la cultura è il motore che si tende al futuro. E così, giovani come Ginsberg o Kerouac si impossessano delle avanguardie europee, suggestionati da Rimbaud, Céline, Pound, o dal dadaismo, e lo fondono con i suoni della loro terra, da Withman al jazz di Parker e Monk, per dar forma a quella ricerca di ritmo e di respiro che verrà chiamata bebop.
Rob Epstein e Jeffrey Friedman decidono di trarre un film che possa raccontare la vita di Allen Ginsberg - interpretato da un James Franco (lo ricordate in Spider Man e Milk?) magistralmente somigliante al poeta -, e le atmosfere di quel periodo, facendo ruotare la vicenda attorno a Urlo. Scritto tra il 1955 e il 1956, stampato in quello stesso anno, l'opera venne processata nel '57 per oscenità - come fosse Madame Bovary o I fiori del male per intenderci.
Il film si struttura in tre situazioni che si sovrappongono e si influenzano. In bianco e nero viene rievocata la mitica lettura del 1955 di Urlo alla Six Galery di San Francisco, dove un giovane Ginsberg interpreta il testo per un manipolo di ragazzi in estasi, ma anche e soprattutto per l'amato Kerouac. S'inframmezza un lungo monologo-intervista in cui Ginsberg racconta della sua giovinezza tra alti e bassi, dell'incontro con Kerouac e la poesia, e di quel gruppo beat - che poi gruppo non aveva intenzione d'essere. E ancora i suoi rapporti con Cassady in giro per l'America, la felicità con Orlovsky e il pensiero a Carl Solomon. Questa parte del film è forse la più interessante perché, a mo' di documentario, riprende e ripete le numerose interviste e i numerosi estratti autentici dell'autore.
Una seconda parte della pellicola dà vita agli allucinanti long lines del poema, che grazie a disegni d'animazione esprimono il panorama urbano decadente dove la vita si è fatta assurda e l'uomo tende all'autodistruzione per evadere da una prigione mentale. Eserciti di impiegati marciano regolarmente tra immensi grattacieli, in un movimento univoco di produzione e consumo di massa – Moloch the incomprehensible prison.
La terza faccia del film è quella che affronta il processo per oscenità, espressione della chiusura culturale e sociale del periodo, gesto estremo della caccia alle streghe del senatore McCarthy. L'imputato è il poeta Lawrence Ferlinghetti, reo di aver stampato l'opera di Ginsberg nel suo City Lights Bookstore, fermamente convinto che quello scritto fosse un'opera d'arte. Ciò che si rimproverava a Urlo era l'uso di parole forti, il riferimento alle droghe e l'esplicito riferimento all'omosessualità. Cose impensabili nell'America puritana e conservatrice anni '50 - ricordate, quello stesso paese che calza stretto al giovane Holden, o che ultimamente è stato così ben descritto da Philip Roth in Indignazione -. Così, ai piedi della corte ci si chiede che cosa sia la letteratura, e tra interrogatori e risposte vaghe, è il poema stesso a uscirne vincitore, e assieme a lui, la libertà artistica. Il film, che ha partecipato al Sundance Film Festival e al Festival di Berlino, è nelle sale italiane già da un po', mentre negli Stati Uniti lo si attende per il 24 settembre 2010. Viene da chiedersi quale sarà la reazione del pubblico americano nel rivedere quel loro casareccio “caso” culturale.

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