SI PARLA DI MALEDIZIONE...


Sesso droga e rock’n’roll. Il manifesto del palcoscenico rock si vestiva così, alla fine degli anni ’60. Sesso, droga e rock’n’roll. Un manifesto a tutti gli effetti che ha fatto parlare generazioni di ogni tipo, fino ad oggi, elevando a inno di autenticità il vivere di tutti quei grandi eroi che nascevano e morivano dentro accordi di chitarre elettriche, armoniche, versi provocatori e struggenti. Era il sesso? O la droga, forse, a rendere il rock ‘n’ roll la guida spirituale di esseri umani disumanizzati e contaminati? O era piuttosto la disperata ricerca di un senso dentro vortici infernali che testimoniavano il tormento di una generazione nuova, viva, in qualche modo condannata? Le risposte finora sono state tante, da parte di chi condannava e giudicava la frenesia dei talenti bruciati in morti precoci, come da parte di chi compativa e approvava una vita che in fondo nessuno di loro aveva scelto. Tutto questo sembra la premessa di un articolo di protesta, magari usando da buoni farabutti il caso di Amy Winehouse, considerata parte del Club dei 27, senza che lei l’avesse mai chiesto a nessuno. Non vedo un possibile dissenso o polemica sul caso maledetto degli eroi ventisettenni, morti per cause dette e sproloquiate dal mondo intero, così come non vedo elogio né saggezza negli stereotipi che si sono creati sulla morte di artisti, mai seriamente considerati, prima di scomparire dalla carne per arrivare alla cenere. Cenere. Ecco cosa resta, di tutto questo. Solo cenere. La morte come mezzo di commercializzazione. La musica come causa di decesso. La droga come peccato da non raccontare troppo a fondo, altrimenti si svela la grandezza di quei testi, scritti dai geni del rock e del blues, che solo sotto l’effetto di polveri incantate hanno creato tutto questo delirio musicale. No. L’hanno creato comunque. Esisteva, comunque. Palpitava e trasudava dalle pelli, comunque. È semplicemente più facile credere che le cause siano state esterne piuttosto che interne. Richiede meno responsabilità per chi ne deve raccontare gli eventi che hanno caratterizzato il percorso di un cantante, musicista, poeta o soltanto di un uomo arrivato/i al decesso precoce. Forse se smettessimo di chiederci il “perché” delle cose, e iniziassimo a considerare i “come”, forse, e dico forse, la situazione risulterebbe più chiara di quello che sembra. Le risposte sono dentro le domande. Si parla di solitudine. Nulla più.
È la profonda, raschiante solitudine che da sempre ha portato le menti geniali a creare. Non esiste droga peggiore di questa, in cui sguazzare. Jim Morrison ne cantava la sessualità, in tutte le sue forme. Fare l’amore con la solitudine era più eccitante che fare sesso con una donna. Jimi Hendrix ne suonava gli echi e gli strozzi, per morirne poi soffocato. Janis Joplin urlava la schiavitù che tutta quella solitudine non richiesta le provocava, rendendola donna, eroina inquieta e condannata. Brian Jones persisteva, barcollando in tutto il suo isolamento. E ora Amy Winehouse, che a braccetto con la sua solitudine se ne andava per i bar, in attesa che l’infinità di vodka nel suo corpo la possedesse a tal punto da farla cadere a terra, incosciente. E la solitudine in tutto questo l’assisteva. Paranoico, dunque, sembra parlare di solitudine, rendendola soggetto vivo di un essere umano. Perché mai parlarne, in fondo. La solitudine non ha nulla di palpabile, di concretizzabile, di visibile, per essere considerata causa mortale. La solitudine non porta denaro né immagine a chi sfrutta il genio di eroi per ricavarne un commento pagato. La solitudine è una questione personale. Da buoni individualisti, lasciamola perdere. Non serve a nulla combattere l’impalpabile. È tutto il resto che conta.


Quando alla fine quel tutto è sostanza del niente. Penso che questa sia la vera maledizione, che a differenza di quella dei 27, non ha età, né inizio, né fine. Ha solo spazio e tempo, troppo tempo, per dilagare e devastare la lucidità dei fatti, intorpiditi dai commenti e dalle critiche mondiali, sul perché si debba morire a 27 anni, su quanto le droghe siano pericolose, e su come il mondo dello spettacolo sia l’anticamera dell’inferno. Tutto vero. Tutti ne parlano, tutti lo sanno, nessuno lo evita. E chi ci rimette, alla fine, è sempre la memoria dei grandi geni, che trovano un senso per esistere quando il cuore ha smesso di pulsare sangue, quando le mani si atrofizzano in cancrena, senza poter più scrivere. Scrivere pezzi che segnano la storia, solo se muori. Altrimenti ne parliamo più avanti. Scrivere strofe per chiedere aiuto disprezzando chi cerca di dartelo. Farsi trascinare nel vortice di fama e gloria, ottenendo in cambio la disfatta del proprio essere innato, autentico, genuino, che creava comunque arte musicale. Il paradosso dell’essere. Così scrivevano, attraverso la musica. Era la solitudine che scriveva, mentre questi eroi cercavano di vivere. Ci si abitua a tutto, anche alla solitudine, che a un certo punto diventa piacevole da sentire, da percepire, quasi da sfruttare per intrappolarla in scritti non capiti, ma da tutti condivisi, quando muori. Non dico nulla e non propongo nulla. Semplicemente penso, nego, approvo, disapprovo, rinnego e… taccio.

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