SONO STATO L'ASSISTENTE DEL DOTTOR MENGELE

La sopravvivenza dai campi principali di Birkenau, Monowitz, Auschwitz e dai relativi quarantacinque sottocampi, è il risultato di una mistura variabile e informulabile d’ingredienti: cinismo, forza fisica e mentale, conoscenza della lingua tedesca, particolari mansioni da civile, ma soprattutto, casualità. Tutto è d’ausilio nell’assurdo e insperato tentativo di non morire fisicamente all’interno del campo di sterminio nazista. Le testimonianze a noi pervenute dai vari Italo Calvino, Elisa Springer e Miklós Nyiszli, sono squarci nell’anima di esseri umani che, nel tempo più squallido e alienante della storia contemporanea, hanno saputo utilizzare la loro forza, intelligenza, al fine della sopravvivenza “corporea”.
Peccato che il fattore decisivo alla morte o all’incredibile rimanenza in vita, era la casualità. Sì, perché non parliamo di destino, né di fortuna. Parliamo di caso. Nient’altro che puro caso.
All’interno di questo complesso, indefinibile per la sua meccanicistica crudeltà e perversione, si trovava il nucleo dello sterminio e del conseguente dissolvimento del genocidio: ”die krematorien” (i crematori). Ovviamente le modalità di assassinio erano plurime, fra cui “il colpo in testa” davanti alle fosse o quello nei casi singolari in cui un prigioniero si ribellava, si distraeva, o si accasciava per la fatica; ma il riflesso dell’attitudine nazista di massificare ogni aspetto della società (gli ideali, le produzioni, le ambizioni belliche e razziali, etc.), stava nello sterminio di frequenza industriale attuato nel sistema delle gaskammern (camere a gas).
È all’interno di questa sezione che si trovava il Sonderkommando, una vera e propria squadra di detenuti che subivano la lancinante tortura psicologica di uccidere correligionari, connazionali, coetanei, amici, genitori e figli, e di smaltirne i corpi attraverso la combustione nei forni crematori. I componenti del Sonderkommando erano quindi gli unici prigionieri testimoni di ciò che realmente si celava dietro alla crudele ipocrisia di quelle parole che accoglievano ogni condannato: “arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi).
Per questo semplice e unico motivo l’intero Sonderkommando veniva sterminato tassativamente ogni sei mesi, perché il loro segreto si decomponesse insieme alla loro salma. Questa funzionale sezione del lager, quindi, rimaneva nota esclusivamente a chi la governava, a chi ci andava a morire senza saperlo, e a chi ci rimaneva per vedersi morire lentamente. Tutto questo scenario d’inaggettivabile inferno, in tutto il suo segretissimo rituale di morte, viene vissuto dagli occhi e dalla pelle di un medico ungherese, destinato a spargere la macchia della sua memoria nella coscienza di tutti noi.
Miklós Nyiszli era un detenuto del Sonderkommando. Ne fece parte dal maggio 1944 al gennaio 1945; la sua sopravvivenza è stata determinata dalla sua professione di medico anatomopatologo e dalla sua eccellente capacità di esercitarla.
Il suo talento, la sua vocazione, la sua vita.
Tutto diventò strumento dei capricci perversi di uno dei molti dèi dell’inferno hitleriano: Dottor Josef Mengel.
Come uno scienziato di zoologia, il Dottor Mengel teneva fra le dita insetti semiti, nomadi, o dalle bizzarre tendenze copulative. Nonostante evidenze e tentativi, pareva difficile dimostrare la superiorità della sua razza di fronte a quella d’insignificanti, fastidiosi insetti. Molto difficile. Comandava e delegava. Era per l’onore militare.
Selezionava e uccideva. Era per la scienza ariana.
Osservava e sperimentava. Era per il progresso tedesco.
Nyiszli ne era il macabro burattino, sospeso fra terrore e impotenza.
Quel burattino esaminava i corpi di bambini gemelli uccisi dall’acido fenico, anatomizzava i cadaveri di nani con richiesta di mortis causa, nonostante una pallottola avesse forato loro il cranio.
Le sue autopsie filtravano dallo sterminio per scoperte comprovanti, per una medicina fasulla, per una gloria assassina.
Il burattino annuiva e redigeva.
Ubbidiva e dissezionava.
Taceva e consumava.
Era per la sua sopravvivenza.
Interrompo qui la mia introduzione a questa fondamentale testimonianza, perché non sia sminuita né condizionata dalle opinioni di un’esistenza così lontana da certe verità; lascio a voi il completo coinvolgimento.
Leggere questo libro non è solo un rarissimo e prezioso modo per ricordare, poiché non è questione di un doveroso ricordare sbiadito in bianco e nero. Osserviamo la nostra realtà: chi è davanti a noi alle poste, chi ci rifila una multa sul parabrezza, chi ci poggia una birra sul bancone. Finché noi saremo esseri umani, sarà nostro dovere conoscere chi siamo stati e chi potremmo essere.
Osserviamo la pericolosità delle idee umane. Noi cosa vogliamo pensare? Ancora una volta, noi, cosa vogliamo essere?

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